
Aspetti antropologici dell’omosessualismo tra biopolitica e utopia
Pubblicato in G.Brambilla (ed.), Sessualità, gender ed educazione, ESI, Napoli, 2015, pp.151-162.
Le “teorie del genere” e l’omosessualismo – dove con questo termine intendiamo i gruppi di militanti gay che cercano di ottenere il riconoscimento di taluni diritti – ancorano le loro argomentazioni a una sorta di egualitarismo che mostra la differenza, nella fattispecie quella sessuale, come motivo di discriminazione. Questo approccio diventa muro, se non addirittura strategia[1], che impedisce di entrare in merito alla questione omosessuale e alle sue innumerevoli implicazioni individuali, culturali e sociali. Tutto il discorso è riportato continuamente all’aspetto dei diritti, alla lotta contro le discriminazioni, alla ricerca dell’uguaglianza. I movimenti LGBT affermano che la differenza tra uomo e donna presuppone un’ingiustizia e lo fanno attuando una specie di equazione: la differenza dei sessi è una disuguaglianza e la diseguaglianza è un’ingiustizia; dunque, la differenza sessuale è un’ingiustizia[2]. Il problema è che vengono equiparate due realtà, la sessualità maschile e quella femminile, dicendo che sono uguali, negando quindi la loro differenza. Ma affermare che due cose differenti sono uguali non è già discriminatorio[3]? Se andiamo più in profondità della logica che propugna l’identità per abolire la differenza, a trionfare è la «stessità, la possibilità di nominare cose differenti con lo stesso nome. Il risultato è quello di produrre un sapere uniformato, autoreferenziale, che si rispecchia in se stesso riconoscendosi sempre identico a sé»[4].
Ci chiediamo se davvero l’uguaglianza si possa ottenere attraverso l’eliminazione della diversità. Questo contributo si propone allora di considerare brevemente non l’omosessualità in quanto tale – tema affidato ad altri contributi – ma piuttosto di effettuare un’analisi di tipo antropologico delle contraddizioni interne alla visione omosessualista, soprattutto per quanto riguarda il concetto di libertà e di uguaglianza (tema della prima parte del contributo) e di proporre, infine, la valorizzazione dell’alterità sessuata nel matrimonio come emblema della comunione tra le persone dove la differenza non è ineguaglianza[5] ma si configura come ricerca di unità.
Privare l’eros dell’eteros. L’uniformità tra egualitarismo e controllo
In ottemperanza al principio secondo il quale diversità equivale a disuguaglianza, e dunque a un’inaccettabile fonte di discriminazione e oppressione, è necessario fare in modo che tutti gli esseri umani non siano più identificabili in intollerabili classi in base al comportamento sessuale, ma nella nuova categoria del genere come promessa per un futuro di felicità e pace per tutti nel momento in cui saranno cadute tutte le barriere e le discriminazioni[6].
La definizione di “identità di genere” di John Money sottende un ideale già di per sé utopico nell’immaginare un nuovo mondo formato da individui senza “classi” di sesso – al di là dall’imprinting genetico e dalla conformazione genitale – nel quale quello che conta è la comune appartenenza al genere umano. La differenza, e in questo caso, nello specifico quella sessuale, costituisce motivo di incomunicabilità. L’incomunicabilità, divisione e la divisione scontro. L’idea di Money, infatti, non è quella di riconoscere nella persone un “core”, un nucleo che costituisce la base per il dialogo e il rispetto della dignità in quanto esseri umani, ma piuttosto una sorta di neutralizzazione dell’identità sessuata, ma soprattutto della cancellazione del limite in ambito sessuale. È facile comprendere la visione di fondo della realtà e dell’essere umano nel seguente passaggio: il proprium maschile e femminile , in senso più ampio, la differenza in quanto confine, limite non mi permette di dare sfogo ad una libertà intesa come assoluta autodeterminazione. È bene precisare che la volontà di cancellazione del limite – che certamente non è riflesso di una libertà correttamente intesa come “libertà per”[7] – non è nemmeno espressione propriamente di una libertas a coactione (nel senso di libertà da condizionamenti) ma figura come ricerca irrefrenabile delle proprie pulsioni, in perfetta linea con l’accezione liberale per cui un consumatore, nella misura in cui consuma, è un “produttore” della propria soddisfazione[8].
Il problema è che, dal punto di vista antropologico, eliminare la “classe”, cioè il sesso di appartenenza, è innanzitutto rimpicciolire il proprio corpo in favore di una visione quasi “spiritualista” della persona; poi, è eliminare la natura, che in ambito sessuale significa raggiungere quell’aspirato genere neutro a cui deve aspirare l’intera umanità per poter giungere al miraggio della pacifica convivenza sulla terra. In questo pensiero, le differenze – anche quelle biologiche – considerate pericolose, devono essere sacrificate all’uniformità culturale, il che non è affermazione di sé o del proprio agire, ma semmai già di per sé privazione. È facile cogliere che le stesse rivendicazioni che scaturiscono dai cosiddetti “gender studies” si rifanno ad una aspirazione di giustizia “correttiva”, quasi che la naturale differenza sessuale costituisse di per sé una mancanza e quindi un’ingiustizia. Di fatto, quindi, l’uguaglianza si ottiene al negativo, cioè togliendo qualcosa – in questo caso l’identità sessuata – e non piuttosto affermando, o semplicemente riconoscendo, la persona per quello che è. Capiamo, allora che la teoria del gender ha un aspetto politico, anzi biopolitico, in due sensi apparentemente opposti. Infatti, da un lato, poiché il concetto di “differenza” è affiancato al concetto di “autorità” e letto come un sistema di potere, “decostruire” il sesso e quindi la natura è una forma di liberazione. Una libertà che degenera, però, in un ulteriore potere sul proprio corpo oggettivizzato. Dall’altro, la ricerca ossessiva di uniformità è essa stessa una forma di “controllo”, che diventa crescente pervasività del politico nel biologico. Cercherò di analizzare brevemente entrambi gli aspetti e soprattutto le rispettive possibili ripercussioni.
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Libertà o potere sul corpo?
Judith Butler[9] ritiene che la differenza tra uomo e donna derivi dalla matrice eterosessuale del potere, per cui decostruendo il sesso si approda al genere come costruzione sociale, il che permetterebbe all’individuo di poter costruire liberamente la propria identità. Questo, ha come estrema conseguenza, abbiamo detto, la ricerca di una libertà, intesa univocamente come autodeterminazione, a cui segue l’appello al diritto di usufruire di tutto ciò che da essa sarebbe reso possibile, nell’ottica rawlsiana di giustizia intesa come equità. A tal punto che se la tecnologia può rendere possibile ciò che è desiderato, ciò è assolutamente da promuovere. È l’uomo del sistema liberale, l’uomo faber ipsius fortunae[10], la cui prerogativa risiede nel forgiare se stesso e il proprio destino nel mondo. Egli è “libero e sovrano” e, avendo una natura plastica e indeterminata, ha la possibilità di progettare se stesso, ma soprattutto ritiene di dover costruire e conquistare da sé il proprio posto nel mondo[11]. L’uomo, che ha tra le mani il proprio destino e che non accetta dall’esterno nessuna verità rivelata, diventa in Locke[12] il titolare di diritti inalienabili che nessuno può violare, in quanto nessuno ne ha l’autorizzazione. Ovviamente, dal momento che crescenti libertà di scelta promuovono l’autonomia privata del singolo, si capisce bene come la scienza e la tecnica si siano finora trovate sempre spontaneamente d’accordo con l’idea liberale per cui tutti i cittadini devono avere la stessa chance di organizzarsi autonomamente la vita[13]. L’individuo può decidere se questa sia la migliore natura possibile o cercare dei modi per riplasmarla: «possiamo fare dei nostri corpi degli oggetti. Possiamo scoprire dei modi migliori in cui avremmo potuto essere plasmati»[14]. Il dibattito che parte dallo studio della bioetica credo evidenzi in tutta la sua intensità cosa succede se il corpo da bene indisponibile diventa disponibile e quindi reificabile. E il corpo è oggettivabile se è “staccato” da me, ovvero all’interno di quella che viene chiamata antropologia dualista di stampo platonico, gnostico e cartesiano. È chiaro che chi propone l’idea di un’identità sessuata “fluida”, malleabile, addirittura modificabile mediante intervento chirurgico rimarca con forza che il corpo – e lo ribadiamo, un corpo che è inequivocabilmente sessuato fin dall’inizio – in tutta la sua materialità non ha un legame con l’interiorità così forte da influenzare l’esistenza umana. E, senza limiti, la libertà diventa delirio di onnipotenza: cambiamento di sesso, manipolazione genetica, “genitorialità a tutti i costi” (utero in affitto, fecondazione in vitro, ecc.).
Il punto di partenza della corporeità, invece, «si fonda sull’esperienza originaria o autocomprensione pre-riflessa: su quella appunto della percezione immediata del corpo. La prima realtà che fenomenologicamente incontriamo nella coscienza è la realtà corporea propria»[15]. La persona umana, nella sua costituzione psico-somatica, è un essere sessuato e questa caratteristica determina il suo essere. La dualità sessuale è il modo specifico dell’uomo di vivere nel mondo e di rapportarsi agli altri. Nella coscienza della propria corporeità, l’uomo rivela alla donna la sua femminilità e la donna rivela la mascolinità all’uomo. Il corpo si rende così rivelatore ineludibile di un’identità, mediatore dell’identità psichica per portarla a compimento attraverso la scoperta della diversità. Come la persona è un “io” aperto al “tu” ed è quindi un essere in relazione, anche la sessualità possiede una essenziale dimensione relazionale. È il segno e il luogo dell’apertura, dell’incontro, del dialogo, della comunicazione e dell’unità delle persone tra di loro. L’ “io” si costituisce soltanto in relazione al “tu” e la sessualità è la realtà che manifesta questa comunione del “noi”. L’essenza della sessualità umana risiede proprio in questa relazione di un “io” verso un “tu”, che trova il suo fondamento nella costituzione relazionale dell’io personale. La metafisica dell’actus essendi[16] mostra come l’essere non sia chiuso in se stesso, ma aperto all’altro, per cui la perfetta identità passa attraverso l’alterità e si realizza nella comunione di amore. L’uomo si coglie come un ego-ad, un ego-cum. L’altro, simmetrico all’io, si autoimpone, senza dipendere da quest’ultimo per la sua esistenza. L’io che si avvicina all’altro in termini di gratuità permanente resta soggetto, proprio perché compie un’operazione di potenziamento dell’essere nell’altro. E anche il tu resta soggetto, in quanto e nella misura in cui l’io si avvicina al tu con immenso rispetto sia formale sia sostanziale. E così, non lo tratta con lo sguardo strumentalizzante, ma gli lascia intatta, potenziandone l’essere, la sua soggettività al cui servizio si pone.
- Uniformità e controllo
Depotenziare la differenza sessuale, indebolirla appianarla, omologarla in base a un principio egualitario comporta uno smarrimento della sessualità[17]. Non solo. Ogni qual volta si propone una sorta di “standardizzazione” va da sé che ci si deve rifare a uno “stampo”. Chi decide quale modello sia quello giusto? In una precedente trattazione[18], si è dimostrato che un’eugenetica di stampo liberale prevede che sia il genitore il designer del figlio attraverso la manipolazione genetica. Andando più indietro nel tempo, a quella che alcuni autori chiamano “vecchia eugenetica”[19], a farsi garante è lo Stato che, entrando nella vita dei cittadini, impone linee di condotta relative alla sessualità e alla riproduzione. L’intromissione dello Stato nella vita della persona è di vecchio stampo. Basti pensare all’utopia positivista dell’eugenetica italiana, molto legata al rinnovamento educativo basato sull’introduzione in ambito scolastico di un’educazione scientifica che favorisse lo sviluppo di un’“intelligenza realistica” in materia di igiene sessuale[20]. Tale “utopia eugenetica” nacque in stretto rapporto con la costituzione di una burocrazia sanitaria statale che ebbe luogo con il codice crispino nel 1888. La medicina diventava “politica”, in quanto capace di tradurre in termini ideologico-normativi gli interessi della collettività. Questo termine, “collettività”, non tardò a diventare emblema dell’azione socio-politica e quindi medica. A tale scopo, la categoria della “responsabilità collettiva” si rivelò un efficace fattore di legittimità delle istanze riformatrici e del paradigma collettivista: se la collettività aveva il dovere di provvedere alla salute dei suoi membri, essa aveva anche il compito di verificare che il comportamento del singolo fosse biologicamente responsabile.
È curioso constatare che in una realtà socio-culturale ossessionata dalla “privacy” come la nostra si assista a un massiccio intervento dello Stato, coerente con una visione di tipo collettivista, sulla sfera privata con apparenti finalità di immunizzazione[21].
Il controllo del potere politico sulla vita biologica (biopolitica come “politica della vita biologica”) è l’accezione di biopolitica data da Michel Foucault (1926-1984): il potere diventa “biopotere”. A partire dal XVII secolo assume due principali sbocchi: quello dell’“anatomia politica del corpo umano” che controllava, in una visione meccanicistica, il funzionamento del corpo umano e quello di una “biopolitica della popolazione”, che controllava il corpo della specie e i meccanismi della sua riproduzione. Questa sempre maggiore pervasività del dominio politico nell’ambito biologico trova una paradossale sanzione e incentivazione nell’affermazione dei diritti dell’uomo come fondamento delle Dichiarazioni di diritti dell’età rivoluzionaria. Tali dichiarazioni evidenziano una sovrapposizione di diritti dell’uomo in quanto essere naturale e diritti dell’uomo in quanto cittadino, aprendo la strada alla statalizzazione del biologico e alla regolamentazione da parte della nazione di ambiti sempre più ampi della vita.
Il complesso sociale ha maggiore importanza e significato della parti individuali: le differenze biologiche innate debbono sacrificarsi all’uniformità (..) L’uomo deve sacrificare le proprie idiosincrasie ereditarie e fingere di essere quel buon ingrediente standardizzato che gli organizzatori dell’attività di gruppo stimano perfetto per i loro fini. Quest’uomo ideale è colui che mostra “conformismo dinamico”[22].
Questa politicizzazione della vita che sembra cercare di “proteggere”, di immunizzare la collettività attraverso l’uniformità dei suoi membri non può che estendere il controllo agli ambiti della sessualità e della procreazione soprattutto a partire dalle nuove generazioni. Di grande rilievo è, infatti, l’educazione sessuale nelle scuole di cui i gruppi LGBT si fanno grandi promotori[23]: a cominciare dalla prima infanzia si propongono secondo standard dell’OMS progetti che rivelano una ben determinata visione antropologica secondo cui si è biologicamente maschi o femmine, ma questo non conta per la propria identità sessuata. Per cui il bambino deve sperimentare, magari vestendosi da femmina se è maschio e viceversa, altri percorsi; per poi affrontare precocemente il tema della genitalità e con la scusa della “parità di genere” affrontare il tema dell’omosessualità sempre nell’ottica futura del “coming out”.
La sessualità e la riproduzione ritornano di nuovo di dominio pubblico. In maniera quanto mai lontana dalla tradizione ebraico-cristiana che considerava il “talamo” qualcosa di talmente intimo e sacro da richiedere rispetto.
Questo controllo viene attuato, di fatto, attraverso la svalutazione della famiglia come colei che è l’unica a poter deliberare sul numero dei figli da accogliere e ad avere il primato sulla loro educazione, in particolar modo quella affettiva e sessuale[24]. In particolare, da un lato assistiamo a politiche internazionali di family planning, le quali sotto la bandiera dei diritti riproduttivi propugnano non solo campagne massive di “controllo delle nascite”[25], dall’altro l’educazione sessuale proposta come obbligatoria nelle scuole. È qui che l’uniformità diventa controllo.
Si pensi alla conferenza di Pechino (1995) che si è caratterizzata proprio per il concetto di controllo sulla sessualità e sulla fecondità. Dopo tale conferenza, le agenzie ONU ha propugnato campagne basate sulla banalizzazione della sessualità per la diffusione dei contraccettivi e dell’aborto, imponendo anche il modello omosessuale e la diffusione dei concetti della teoria del gender. I genitori vengono spodestati dal loro ruolo e dalla loro responsabilità educativa quando viene posta sotto la tutela dello Stato l’educazione sessuale dei ragazzi[26].
La famiglia, almeno nella tradizione occidentale, rappresenta, invece, l’istituzione intermedia tra la persona e lo Stato. L’accoglienza della vita, poi, «non è soltanto un’offerta di vita, ma il luogo effettuale in cui una vita si fa in due, si apre alla differenza con se stessa secondo un movimento che contraddice in essenza la logica immunitaria dell’autoconservazione»[27].
Unum velle: la differenza che rende possibile l’unità
La struttura relazionale della persona rende complementari l’identità e l’alterità[28]. Per Ricoeur, tra identità e alterità non vi è solo un rapporto di comparazione bensì di implicazione: l’alterità è costitutiva della stessa identità[29]. La diversità non presuppone incomunicabilità, ma semmai il contrario. Come il pensiero procede per differenze e dove esse mancano non c’è avanzamento, laddove non vi sono differenze non c’è la condizione dell’intesa e della comunicazione[30]. La diversità, infatti, non solo non è un “ostacolo” alla ricerca del bene e del giusto, ma «è condizione impreteribile per accedere alla verità di ciò che unifica le dimensioni corporee, spirituali, psichiche e semantiche del genere umano: la comunione nella diversità è il “semeion” della verità dell’uomo, di un’idea di un’umanità intesa come grandezza dell’essere umano»[31]. Quello che ci mette, infatti, veramente gli uni contro gli altri e che oscura e falsa la inter-relazione tra di noi è l’alienazione da noi stessi, dal nostro essere uomini: così l’uomo diventa “straniero” per il simile. Viceversa quando è la comune natura a fondare la relazione e il dialogo, «subentra un criterio comune che non fa violenza poiché in ultima istanza, è attesa della verità. Questo non significa uniformità; al contrario, è solo quando accade questo che l’opposizione può divenire complementarietà»[32].
La pace stessa, infatti, «non è solo assenza di guerra e neppure uno stabile equilibrio tra forze avversarie, ma si fonda su una corretta concezione della persona umana»[33]. Anzi, la pace è in pericolo, non quando non è possibile che ognuno faccia ciò che vuole, ma, più radicalmente, quando «all’uomo non è riconosciuto ciò che gli è dovuto in quanto uomo, quando non viene rispettata la sua dignità»[34]. Infatti, solo il riconoscimento della dignità umana può rendere possibile l’uguaglianza tra culture differenti, oltre che la crescita comune e personale di tutti[35]. Per la costruzione di una società pacifica, inoltre, di importante contributo sono la difesa e la promozione dei diritti umani, la cui radice, però, risiede anch’essa nella verità dell’essere umano e nella sua dignità. La giustizia, infatti, non è una semplice convenzione umana, perché quello che è giusto non lo è in quanto determinato dalla legge, ma è tale in quanto dettato dall’identità profonda dell’essere umano[36].
L’amore, nel significato oggettivo del termine, implica una differenza fondamentale tra le persone coinvolte, che nell’attrazione tra persone dello stesso sesso non esiste essendo propriamente una relazione “a specchio”[37], sebbene tra di esse possano esprimersi dei sentimenti. Solo che l’amore non è un sentimento. È un progetto carico di progettualità che poggia sulla verità dell’essere dell’altro. «Non basta essere due persone ognuna con una personalità individuale per trovarsi in una relazione di alterità se, oltre a questo, non si è integrato il significato della differenza sessuale[38].
Sulla base dell’approccio qui prospettato è possibile prendere posizione nei confronti di quelle concezioni che, essendo unilaterali e riduttive riguardo alla differenza sessuale, risultano incapaci di renderne ragione nel suo significato propriamente umano. Da una parte, infatti, l’affermazione del radicamento corporeo della differenza non implica l’assoggettamento ai rigidi determinismi biologici perché, come si è visto, il corpo, in quanto umano, è sempre attraversato dallo spirito e, quindi, è segnato da tutto ciò che da quest’ultimo deriva, ovvero è un corpo carico di profondi significati simbolici e culturali e non è mai pura materia inerte ed estranea all’ambito di azione della libertà[39]. D’altra parte, però, proprio l’originaria sessuazione del corpo impedisce di considerare la differenza come una pura costruzione socio-culturale che, in quanto tale, può essere decostruita sulla base di scelte soggettive, sganciando completamente la strutturazione dell’identità dal suo fondamento biologico, ritenuto irrilevante riguardo all’orientamento sessuale che è affidato solo alle preferenze personali. Rispetto a tali concezioni riduttive,
è sicuramente più positiva e feconda di sviluppi la posizione conosciuta come “pensiero della differenza sessuale”, dovuta all’elaborazione teorica di Luce Irigaray e ripresa da altre studiose soprattutto in Francia ed in Italia. In questa posizione il riconoscimento del carattere originario della differenza, iscritta nel corpo, è inseparabile da quello del suo significato propriamente umano, rifiutando ogni contrapposizione tra natura e cultura e prospettando l’esigenza di una piena valorizzazione della peculiarità di ciascun sesso[40].
Muovendo dal presupposto già delineato, secondo cui la persona è considerata nella sua unitotalità di corpo, psiche e spirito, l’antropologia personalista ritiene, in risposta alle precedenti impostazioni, che la persona non soltanto ha un sesso determinato, ma è uomo o donna. La sessualità umana non è, perciò, riconducibile ad una cosa o ad un oggetto, ma è conformazione strutturale della persona, una sua struttura significativa prima ancora che una sua funzione[41]. La sessualità è qui una componente fondamentale della personalità, un suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare con gli altri, di sentire, di esprimere e di vivere l’amore umano[42]. Questa capacità di amore come dono di sé ha, pertanto, una sua “incarnazione” nel carattere sponsale del corpo, in cui si inscrive la mascolinità e la femminilità della persona. «Il corpo umano, con il suo sesso, e la sua mascolinità e femminilità (..) racchiude fin “dal principio” l’attributo “sponsale”, cioè la capacità di esprimere l’amore (..). Ogni forma di amore sarà sempre connotata da questa caratterizzazione maschile e femminile»[43].
La possibilità che due “io” diventino un solo “noi” passa non attraverso l’univocità, ma attraverso quell’unità di voleri che fa sì che due “io” diventino un solo “noi”. L’essere sessuati segna l’essere della condizione umana, caratterizzato dalla distinzione, ma in ordine alla convergenza. I fattori complementari, poi, si precisano quando l’uno fa da specchio all’altro: «ogni individualità è unitotalità non chiusa, ma strutturata all’apertura, con ogni altra unitotalità umana. Quando l’unitotalità si rivolge a quella complementare, si costituisce l’unidualità nella reciprocità»[44]. Nella descrizione – dunque, non nell’analisi, visto che quelle tra uomo e donna sono differenze talmente inequivocabili che possono solo essere descritte – della specificità femminile e maschile, non vi è in alcun modo sessismo quando si sottolinea le linee di demarcazione che meglio rivelano le caratteristiche di complementarietà che chiamano i due sessi al dialogo[45]. Ora, il fatto che l’uomo e la donna risultino complementari sul piano biofisico, offre un’indicazione solida sul fatto che la struttura complementare è presente e operante anche sotto il profilo psico-spirituale: «l’attrazione implica la complementarietà, che non è solo di tipo fisico. E questa connota la differenza. Che non può essere solo di tipo fisico. (..) La differenza sessuata contiene già in sé l’esigenza costitutiva della relazione nella forma della reciprocità»[46].
Vogliamo spingerci oltre. Non basta che i sessi siano considerati distinti; si tratta piuttosto di comprendere il “distinguere per unire”, come principio ermeneutico della unidualità. La relazione uomo-donna è, infatti, una realtà unitaria, ma articolata e differenziata nei suoi elementi. E questo dipende dal loro essere persona: «la persona, proprio perché irripetibile, dice sessualità originaria e originalmente combinata con fattori peculiari del complementare tu. Dice, insomma, differenza e relazione. Ed è, quindi, l’unico sfondo sul quale si possa parlare (..) dell’uguaglianza uomo-donna nella differenza»[47]. L’altro è diversità che riconosce se stesso quando viene a contatto con il simmetrico a sé. L’io maschile si avverte tale al cospetto del femminile che gli fa da specchio e lo fa riconoscere differente. Reciprocità è dunque restare se stessi differenti pur facendo unità con l’altro. «Tale unità non è l’assorbimento dell’uno nell’altro, né l’azzeramento dell’uno e dell’altro in un indistinto nirvana antropologico. E neppure è, nell’applicazione bisessuale, lo sbocco in un neutro androgino (..). È la costituzione del noi nella percezione dinamica delle differenze riconosciute e delle convergenze colte dalla coscienza e promosse dalla volontà di cooperazione»[48].
[1] Cfr. G.Ricci, Il padre dov’era, Sugarco, Milano, 2013, p.16.
[2] Cfr. L.Palazzani, Identità di genere? Dalla differenza alla in-differenza sessuale nel diritto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, p.60.
[3] Cfr. M.Schneider, Big Mother, Odile Jacob, Paris, 2002, p.221.
[4] G.Ricci, Il padre dov’era, Sugarco, 2013, pp.17-18.
[5] Cfr. S.Agacinski, La politica dei sessi, Milano, 1998.
[6] Cfr. D.Nerozzi, L’uomo nuovo. Dallo scimpanzè al bonobo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008.
[7] Cfr. F.Bergamino, La struttura dell’essere umano. Elementi di antropologia filosofica, Edusc, Roma, 2007.
[8] Cfr. M.Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano, 2005.
[9] Cfr. J.Butler, La disfatta del genere, Maltelmi, Roma, 2006.
[10] La locuzione è attribuita a Appio Claudio Cieco, politico e letterato romano appartenente alla Gens Claudia, vissuto tra il 350 e il 271 a.C. Ne fece il maggior utilizzo il Rinascimento.
[11] Cfr. R.Esposito, C.Galli, “Liberalismo”, in Enciclopedia del pensiero politico, Laterza, Roma-Bari, 2000, p.384.
[12] Cfr. J.Locke, Lettera sulla tolleranza, Laterza, Bari-Roma, 20057.
[13] Cfr. J.Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino, 2004, p.27.
[14] H.T.Engelhardt, Manuale di bioetica, p.428.
[15] S.Palumbieri, L’uomo questa meraviglia, Urbaniana University Press, Roma, p.102.
[16] Su questo, si vedano: R.Lucas Lucas, L’uomo spirito incarnato, San Paolo, Cinisello Balsamo, 20114 e J.Villagrasa, Fondazione metafisica di un’etica realista, ART, Roma, 20082.
[17] Cfr. G.Ricci, op.cit., p.27.
[18] Cfr. G.Brambilla, Il mito dell’uomo perfetto, If Press, Morolo, 2009; Id., Luci e ombre del potere biotecnologico nel tempo prenatale e perinatale, in E.Larghero-M.Lombardi Ricci, Venire al mondo tra opportunità e rischi. Per una bioetica della vita nascente, Edizioni Camilliane, Torino, pp. 185-204.
[19] Sul concetto di eugenetica “vecchia” e “nuova”: M.J.Sandel, Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica, Vita e Pensiero, 2008 e M.Nicoletti, La sfida dell’eugenetica nell’orizzonte della biopolitica, in “Humanitas”, 4/2004, pp.725-736.
[20] Cfr. F.Cassata, Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri, 2006, p.80.
[21] Sul concetto di “immunizzazione”, R.Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004. Si è voluto utilizzare questo concetto, in quanto le politiche legate alla sessualità, come quelle legate al gender o ai cosiddetti “diritti riproduttivi” vengono presentate come una via preventiva di “mali sociali” come l’omofobia o, nel caso della contraccezione e dell’aborto, le gravidanze indesiderate.
[22] A.Huxley, Il mondo nuovo, Mondadori, 200013, p.256
[23] Su questo tipo di proposte si consiglia di visitare il sito: http://www.scosse.org/
[24] Sull’Esortazione apostolica “Familiaris consortio” di Giovanni Paolo II, al n.37 si legge: «L'educazione all'amore come dono di sé costituisce anche la premessa indispensabile per i genitori chiamati ad offrire ai figli una chiara e delicata educazione sessuale. Di fronte ad una cultura che «banalizza» in larga parte la sessualità umana, perché la interpreta e la vive in modo riduttivo e impoverito, collegandola unicamente al corpo e al piacere egoistico, il servizio educativo dei genitori deve puntare fermamente su di una cultura sessuale che sia veramente e pienamente personale (..).L'educazione sessuale, diritto e dovere fondamentale dei genitori, deve attuarsi sempre sotto la loro guida sollecita, sia in casa sia nei centri educativi da essi scelti e controllati. In questo senso la Chiesa ribadisce la legge della sussidiarietà, che la scuola è tenuta ad osservare quando coopera all'educazione sessuale, collocandosi nello spirito stesso che anima i genitori».
[25] Cfr. E.Roccella-L.Scaraffia, Contro il cristianesimo, Piemme, Milano, 2005.
[26] Cfr. T.Anatrella, La teoria del “gender” e l’origine dell’omosessualità, San Paolo, Cinisello Balsamo, 20132, p.147.
[27] R.Esposito, op.cit., p.113
[28] Cfr. F.Bellino, Bioetica e principi del personalismo, in G.Russo e coll., Bioetica fondamentale e generale, SEI, Torino, 1995, pp.92-102.
[29] Cfr. P.Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 1993.
[30]I.Trujillo, Bioetica, multiculturalismo e verità, in F.Compagnoni-F.D’Agostino (a cura di), Il confronto interculturale: dibattiti bioetici e pratiche giuridiche, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2003p.69.
[31] G.Russo, Eugenica e razzismo in bioetica, in G.Russo e coll., Bioetica fondamentale e generale, op.cit., p.462.
[32] J.Ratzinger, Fede, verità e tolleranza, Cantagalli, 20052, p.69.
[33] Pontificio consiglio della giustizia e della pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2004, n.494.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem, n.145.
[36] Cfr. Pontificio consiglio della giustizia e della pace, op.cit., n.202; Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica “Sollecitudo rei socialis”, in AAS n. 80, 1988, p.568.
[37] Cfr. T.Anatrella, Il regno di Narciso, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2014.
[38] T.Anatrella, La teoria del “gender” e l’origine dell’omosessualità, op.cit., p.81.
[39] Cfr. G.Salatiello, L’essere umano femminile: chi è e come “funziona”, in “Studia Bioethica”, 3/2014, pp.10-17.
[40] Ibidem, p.11.
[41] Cfr. G.Miranda, La sessualità umana: il valore e i significati, in M.L.Di Pietro, E.Sgreccia (ed.), Bioetica ed educazione, La Scuola, Brescia, 1970, pp.77-89.
[42] S.Congregazione per l’educazione cattolica, Orientamenti educativi sull’amore umano. Lineamenti di educazione sessuale, in “L’Osservatore romano”, 2/12/1983 (inserto).
[43] Pontificio consiglio per la famiglia, Sessualità umana: verità e significato, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1995, n.10.
[44] S.Palumbieri, L’uomo, questo paradosso, Urbaniana University Press, 2000, p.200
[45] Cfr.R.Habachi, Il momento dell’uomo, Jaca Book, 1986.
[46] S.Palumbieri, op.cit., p.205.
[47] Ibidem, p.207.
[48] Ibidem.