Nella I Lettera a Timoteo, san Paolo ammonisce su come l’attaccamento al denaro sia la radice di tutti i mali e causa, per uno smodato desiderio, persino della perdita della fede (cfr. 1Tm, 6,10). Del resto non era stato lo stesso Gesù a mettere il dito nella piaga, per così dire, quando giudicava impossibile per l’uomo servire due padroni, Dio e mammona (cfr. Mt 6,24; Lc 16,13)?
Ma che cosa è propriamente il denaro?
Apparentemente la moneta è uno strumento di proprietà, un potere proprietario d’acquisto perché accettata contro beni, il cui prezzo indica la quantità di moneta necessaria per avere in cambio il bene stesso. Infatti, dal reddito dipende l’utilità marginale della moneta, e dall’utilità marginale della moneta e dall’utilità marginale del bene è determinato il prezzo che un individuo è disposto a pagare per comprare la dose marginale del bene[1]. Per chiunque vale la massima: la ricchezza dell’uomo dipende dalla quantità di soldi che questi possiede; il significato primo del termine «profitto» è per chiunque quello di «denaro». Questa consapevolezza è così forte che per chiunque possedere una data ricchezza in monete d’oro; in diamanti, in moneta convertibile in oro, in moneta non convertibile è per lo più indifferente, perché nessuno di noi negherebbe che sono mie le 10 Euro che ho nel mio portafoglio, frutto del mio lavoro. Quanto più libero è il lavoro, tanto più ho la possibilità di fare profitto, aumentare la mia proprietà monetaria. Non è forse questa la ricetta capitalista?
È davvero così? Vorrei rispondere negativamente. E il problema fondamentale risiede nel capire due aspetti: chi è il proprietario della moneta? Chi ne decide il valore?
Prima di rispondere chiarisco cosa si intende per moneta e cosa si intende per valore, giacché «la teoria del valore adottata in modo diretto indica la “rappresentazione del mondo” di ciascun economista»[2] (per quanto io non lo sia).
Rispetto al valore economico, l’utilità e la scarsità di un bene sono solitamente qualificate come variabili principali per la definizione del valore materiale di un bene, alla luce di un logico bisogno di quel bene, sia in senso spontaneo o indotto, individuale o collettivo. In generale, ogni bene economico ha, di per sé, valore di mercato, sia nella sua esistenza di bene di consumo e diretto, sia nella sua fattispecie di bene strumentale e d’investimento, perché risponde ad una utilità di soddisfacimento del bisogno, in cui vige la cosiddetta legge dell’utilità decrescente dei bisogni, dal momento che l’utilità che si ricava dal consumo del bene diminuisce via via che si consuma quel bene. Era san Bernardino da Siena, ad esempio, a parlare già di raritas, virtuositas (l’effettiva capacità di soddisfare il bisogno), complacibilitas (con cui ci si rifà alla gradualità di soddisfare il bisogno). A seconda delle prospettive, si è dato risalto al lavoro per produrre quel bene, il valore di scambio, le leggi del mercato. Propria, poi, della scuola marginalista è la teoria soggettiva del valore. Personalmente concordo con Jevons nel rifiutare che l’utilità sia una proprietà intrinseca del bene; ma come l’utilità è una relazione astratta tra singolo individuo e bene particolare, così può dirsi per il valore.
Si potrebbe definire il valore come «una relazione, un tasso di equivalenza»[3], «un modo indiretto di esprimere una proporzione»[4].
Se è vero ciò, si potrebbe arrivare ad una costatazione circa il valore. Si noti un aspetto: in senso trascendentale, facendo riferimento a san Tommaso, ogni ente, in quanto è, è buono: la bontà è una proprietà che l’ente possiede per partecipazione (a diversi gradi); in senso economico, il valore economico è una proprietà non materiale dell’ente in quanto tale, ma una induzione umana. Già sant’Agostino, nel De Civitate Dei, aveva distinto il giudizio della ragione, che ricercando la verità, riflette sul valore intrinseco della cosa, da quello del bisogno, che guarda all’utile e al piacere dei sensi del corpo; e, infatti, Auriti definisce il valore come un rapporto – questo è il primo punto fondamentale della discussione –, e un rapporto tra fasi di tempo, tra il momento della previsione ed il momento previsto, rispetto alla valutazione di fare uso della cosa a cui attribuisco un valore, uso strumentale come una zappa per zappare o uso di scambio come avviene attraverso la moneta, che quindi si definisce, in questo senso «strumento di scambio».
Di per sé, quindi, non è necessaria la moneta: il valore non esiste perché esiste la moneta, il valore esiste perché esiste l’uomo che conferisce una stima ad una cosa (in senso economico) e perché esiste un altro uomo disposto, in qualche modo a riconoscere e accettare quella stima, a confrontarsi con quella stima di valore. Se è vero che il bene è un trascendentale, poiché ogni cosa che è, in quanto è, è buona, è altrettanto vero che nessuna cosa di per sé possiede un valore economico, se non coesistono almeno due uomini. Il valore economico è sempre rispetto all’uomo, poiché l’uomo è il soggetto che può dare valore economico ad un oggetto qualsiasi, a patto che ci sia un altro uomo che accetti e riconosca quel valore. D’altra parte, dato un uomo su un’isola deserta niente avrebbe valore economico, perché non ci sarebbe nessuno che possa riconoscere ed accettare il valore. Questo costituisce il secondo aspetto della nostra costruzione teorica. È probabile che in una comunità di poche decine di uomini, la moneta non sarebbe utilizzata data la semplicità degli scambi e degli accordi. La moneta è una invenzione strumentale, un modo che viene utilizzato per misurare, esattamente come qualsiasi altra unità di misura: in quanto tale la moneta è misura di valore (allo stesso modo in cui il Kg misura il peso); e allo stesso tempo la moneta è anche valore di misura, ovvero il potere di acquisto: io accetto, per fiducia, moneta contro merce perché prevedo di poter a mia volta scambiare moneta con altra merce. È l’autorità statale a garantire, obbligando ad esempio chiunque a utilizzare un’unica moneta ufficiale all’interno del proprio territorio, obbligando tutti ad accettare di essere pagati con tale moneta.
Dunque la moneta ha un valore, in quanto potere d’acquisto. Chi lo decide? Il valore economico di un bene è deciso da fattori di scarsità e utilità, mercato, dalle valutazioni soggettive del consumatore ecc. Ma poiché il valore economico è espresso secondo un prezzo e il prezzo in moneta, tutto sta nel capire chi decide il valore della moneta.
In precedenza, come si sa il valore della moneta era ponderale[5]. Oggi naturalmente non è più così, perché il valore della moneta è nominale. Dopo la fine degli accordi di Bretton Woods, cioè nel 1971 – che avevano segnato nel 1944 il passaggio dalla sterlina al dollaro come moneta di scambio internazionale –, tutta la moneta circolante, la moneta cartacea, emessa dalle Banche Centrali, è sottoposta a regime di corso forzoso. La moneta ha un costo proprio che è quello della relativa produzione: il valore nominale non corrisponde a tale costo; è facile intuire che un pezzo da 100 Euro è un pezzo di carta che ha un certo costo di produzione, pari a qualche centesimo, e un valore nominale infinitamente più alto, appunto 100 Euro. Come è possibile? E soprattutto, chi decide il suo valore nominale? E ancora, esiste la possibilità che io produca moneta ad un costo di produzione e la immetta nel mercato al suo valore nominale guadagnando la differenza tra costo di produzione e valore nominale? Chiunque dovesse procedere così, privatamente, se scoperto finirà in prigione con l’accusa di produzione di soldi falsi. E allora, invece, per i soldi «veri»?
Leggiamo quello che scriveva Adam Smith:
L’introduzione della cartamoneta in luogo della moneta d’oro e d’argento, sostituisce uno strumento di commercio molto costoso con un altro che lo è molto meno e che talvolta è altrettanto conveniente. […]. Quando la gente di un dato paese ha una tale fiducia nel patrimonio, nell’onestà e nella avvedutezza di un certo banchiere da credere che egli sia sempre pronto a pagare su richiesta i suoi pagherò in qualsiasi momento gli vengano presentati, questi biglietti vengono ad avere lo stesso corso della moneta in oro e d’argento, data la fiducia che in ogni momento si possano avere in cambio di essi monete d’oro e d’argento. Un certo banchiere presta ai suoi clienti i propri pagherò per un ammontare, supponiamo, di centomila sterline. Siccome questi pagherò adempiono a tutti gli scopi della moneta, i suoi debitori gli pagano l’interesse come se egli avesse prestato loro la stessa somma in moneta. Questo interesse è la fonte del suo guadagno. Per quanto alcuni di questi biglietti ritornino continuamente a lui per il pagamento, una parte di essi continua a circolare per mesi e anni di seguito. Quindi, sebbene, in genere, egli abbia in circolazione biglietti per un ammontare di centomila sterline, ventimila sterline in oro e in argento saranno il più delle volte una scorta sufficiente per far fronte alle eventuali domande di pagamento. Pertanto, mediante questa operazione, ventimila sterline in oro e argento svolgono tutte le funzioni che sarebbero state svolte altrimenti da centomila sterline. Per mezzo dei pagherò emessi dal banchiere, per un ammontare di centomila sterline, possono essere fatti gli stessi scambi e può essere fatta circolare ed essere distribuita ai rispettivi consumatori la stessa quantità di beni di consumo che per mezzo di un egual valore di moneta d’oro e d’argento. Pertanto, in questo modo, ottantamila sterline d’oro e d’argento possono essere tranquillamente risparmiate sulla circolazione del paese; e, se diverse operazioni di questo genere fossero condotte nel medesimo tempo da diverse banche e banchieri, l’intera circolazione potrebbe così svolgersi con solo un quinto dell’oro e dell’argento altrimenti necessari[6].
Effettivamente quello che facevano le singole banche, oggi dipende dalla banca centrale, ma il nucleo del discorso è attualissimo, salvo alcune precisazioni. Per l’esattezza tre: 1) la banca non guadagna solo sull’interesse del prestito. Proprio per il discorso che ha fatto Smith, si può evincere che la banca sia in grado di emettere carta moneta senza copertura aurea fino all’80%, contando della fiducia del popolo, cioè la crea dal nulla, la presta ascrivendola come proprio passivo e chiedendo in più l’interesse. 2) Dietro l’emissione di cartamoneta, creata dal nulla, la banca riprende ricchezza reale, in termini o di lavoro che l’individuo debitore dovrà compiere per pagare il debito, o in termini di beni materiali, in caso di insolvenza (ad esempio una casa ipotecata). 3) La banca è in grado di ascrivere a debito ciò che crea dal nulla come carta-moneta, il cui costo di produzione è quello della carta, godendo di un vero e proprio «signoraggio» rispetto al valore nominale, e di ricevere in cambio ricchezza reale a usura. Questa alchimia è palesemente contro-natura. Per capire che le cose vanno così, per chiarire alcuni concetti come costo di produzione, valore nominale, signoraggio, è necessario fare un breve passo indietro.
[1] Cfr. V. Del Punta, Le basi dell’economia politica, Casa Editrice G. D’Anna, Messina-Firenze 1986, pp. 23-70.
[2] Così ha scritto A. Roncaglia, La ricchezza delle idee. Storia del pensiero economico, Editori Laterza, Roma-Bari 2006, p. 21.
[3] F.A. von Hayek, La denazionalizzazione delle banche. Analisi teorica e pratica della competizione fra valute, trad. it. W. Marani e M. Finazzer Flory, Etas, Milano 2001, p. 71.
[4] W.S. Jevons, Money and the Meccanism of Exange, P.S. King, Londra, 1875, International scientific series, vol. 17, p. 11, citato in F.A. von Hayek, op. cit., p. 71.
[5] A titolo di esempio, nel mondo antico1talento corrispondeva a 30 mine pesanti e 60 leggere; 1 mina a 60 sicli, nel mondo orientale, 100 dracme, in quello greco, e ogni dracma a 6 oboli. La misurazione romana era basata sulla libra e sull’oncia (1 libra = 12 once); sotto Augusto il denario aureo pesava 7,78 g (1/42 libra), valeva 25 denari d’argento, 100 sesterzi di oricalco (ottone con 80% di rame e 20% di zinco), 400 assi di rame; il sesterzio era la moneta più pesante: 1/12 libra = 27,28 g.
[6] A. Smith, La ricchezza delle nazioni, trad. it. F. Bartoli, C. Camporesi, S. Caruso, Newton & Compton editori, Roma 2005, p. 273.