
Dell'Utopia
Dicono che è bella ma impossibile. Io rispondo che ci dobbiamo augurare che non si realizzi mai.
Sono così, tutte le utopie. Le nuvole di sognatori poeti. E le tempeste dei rivoluzionari.
Non perché sia realista, sono contro le utopie; non perché – come voleva Marx – ho la necessità di riconoscere un ruolo storico-messianico al proletariato mondiale, non approvo i socialismi utopistici o riformistici.
Pensateci, tra le tante cose: «Gli inventori di questi sistemi [i sistemi di Saint-Simon, di Fourier, di Owen] ravvisano bensì il contrasto tra le classi e l’azione degli elementi dissolventi nella stessa società dominante, ma non scorgono dalla parte del proletariato nessuna funzione storica autonoma, nessun movimento politico che gli sia proprio. […]. La storia universale dell’avvenire si risolve, per essi, nella propaganda e nella esecuzione pratica dei loro piani sociali». Questo si legge nel Manifesto del Partito Comunista. Non erano quelli dell’ateismo scientifico? Come è possibile, se atei, l’aver valutato un ruolo «messianico»? La funzione storica autonoma del proletariato mondiale è in effetti un ruolo prometeico, è lo sforzo morale concreto dell’uomo, è l’auto-prassi della storia e dell’uomo nel compimento materialistico-dialettico, nella storia. Che non sia l’eredità moderna di quelle teorie rabbiniche, circa il fatto che il Messia non arriverà mai, perché sta arrivando, nel senso che si identifica con la storia dell’intero popolo? Che non sia la secolarizzazione blasfema della vita del Cristo, che ora muore nella fabbrica e risorge sull’altare della rivoluzione, sacrificando la borghesia?
E per cosa? Per la società senza classi?
Chiedetevi: come è possibile che si realizzi una società senza classi? Quali uomini ci vivranno? I perfetti? I santi? Gli uomini divini, che vivranno al di fuori del tempo, sempre uguali a se stessi, sempre beati, oltre lo stato, oltre la legge, essendo essi stessi ordine, legge e beatitudine?
Dicono che l’Utopia è la nostalgia del paradiso terrestre. Non è vero. E non è vero due volte.
Non è vero, perché il fine ultimo dell’uomo non è l’Eden, ma il paradiso celeste: l’opera di redenzione realizzata dal Sacrificio espiatorio del Figlio di Dio è più grande dell’opera della creazione. È vero che il peccato originale ha comportato, nella colpa e nella pena, la cacciata dall’Eden, ma l’opera redentiva di Cristo non ci fa ri-guadagnare quella condizione: molto di più. Non torniamo allo stato dell’innocenza originaria, ma acquistiamo nuovamente la possibilità di accedere alla Beatitudine del cielo.
Nessun mito del buon selvaggio; nessuna ciclicità.
Non è poi vero, anche perché senza la Grazia, l’uomo non può nulla: non si auto-plasma da sé, non si umanizza attraverso le sue opere, non si redime in base alla sua ragione, non si auto-divinizza nel nuovo ordine.
Certo è, che nel nuovo ordine potrebbero esistere solo uomini divini.
Sono contro le Utopie, perché sono la perversione della gnosi politica.
Perché lavoriamo (parte prima)
Esistono in Occidente diverse dottrine sul lavoro.
La prima dipende dalla filosofia politica di Platone. A lui dobbiamo il più importante principio che si possa studiare in Scienza della Politica: ogni dottrina politica dipende – sempre – da una precisa visione antropologica. Non esiste nessuno stato che non sia il riflesso (diretto o indiretto) di una visione dell’uomo. Se lo stato riconosce il diritto (cioè l’ordine) alle coppie omosessuali, significa che riconosce l’omosessualità come un ordine e in generale l’ideologia gender come una verità antropologica. Quindi non può dire di essere laico, nel senso di neutrale su ogni fronte: al contrario, manifesta una precisa visione antropologica. Spende una quantità enorme di soldi in favore di Lobby che si riconoscono in questa ideologia; impone questa ideologia – sempre con retorica tolleranza – ai bambini innocenti e indifesi. Altro che neutralità. Se uno stato come gli USA di Obama, nega l’obiezione di coscienza ai medici anti-abortisti, ha una precisa visione antropologica.
Badate bene: lasciate stare il fatto se siete o meno in linea con la Lobby LGBT, o se siete a favore delle decisioni di Obama. Questa è un’ altra questione. A me basta farvi capire che qualsiasi stato, laico o meno, dipende da una visione antropologica. Necessariamente. Ora, se un cristiano dovesse scoprire che quel tal stato dipende da una visione antropologica gnostica (cioè luciferina nella sua matrice originaria), allora è chiamato – di fronte a Dio e di fronte al prossimo – a fare di tutto per opporsi alle leggi che quello stato approva.
Platone era dell’idea che l’uomo coincidesse con la sua anima (si chiama antropologa dualista, perché l’anima e il corpo sono viste come due sostanze indipendenti); l’anima era immaginata come un carro guidato dall’auriga e trainato da due cavalli: l’auriga rappresenta la ragione, il comando, chi deve governare lo stato, perché adatto a farlo, preparato per fare leggi giuste (in fondo chi di noi affida la cura del cancro all’elezione democratica di un medico? Tutti noi cerchiamo chi ha competenza oggettiva!). I due cavalli rappresentano gli istinti. Il primo cavallo, quello bianco, rappresenta l’orgoglio, la fierezza, il coraggio, colui che combatte per essere riconosciuto nella sua dignità, anche a costo di mettere a rischio la propria vita. A questo tipo di persone Platone affida il compito militare di difendere lo Stato e di far rispettare l’ordine interno. Il secondo cavallo, quello nero, rappresenta il desiderio, la concupiscenza, la carnalità. Questo tipo di istinto condiziona la persona legata alla terra, alla proprietà, mal disposta alla vita in caserma, mal disposta a vivere in una sorta di comunismo di possesso e famiglia (come invece dovranno vivere governanti e guerrieri). Questi sono coloro che dovranno lavorare. Una classe subordinata alle prime due.
È una concezione del lavoro molto diversa da quella moderna. Tuttavia, Platone era favorevole alla parità dei sessi ed era dell’idea di valutare la predisposizione naturale di ognuno per capire la classe di destinazione (avete presente il film Divergent?). E non era comunista! È vero che predispone per le prime due classi un comunismo, ma a differenza dei marxisti, non condanna la proprietà privata come un furto e come una ingiustizia a priori.
Aristotele ha una visione del lavoro più negativa: Platone riconosce ai lavoratori la subordinazione alla classe dirigente, ma riconosce al contempo la dimensione politica del lavoro. Aristotele realizza un altro ragionamento: il lavoro è quella attività che l’uomo deve compiere in una condizione non libera. Il lavoro è quella attività che l’uomo compie per rispondere alle necessità biologiche di sopravvivenza. Il lavoro corrisponde all’attività dell’uomo, nel suo stadio animalesco. Il lavoro è l’attività simile a quella che qualsiasi animale compie per mangiare e bere. Il lavoro è un’attività servile, perché risponde, è serva delle necessità del corpo. Il lavoro quindi non eleva l’uomo, non lo nobilita; lo lascia animale. Il lavoro è proprio dello schiavo.
Una precisazione. Come Platone non è comunista nel senso moderno, Aristotele non è schiavista nel senso moderno. Lo schiavismo moderno è nato con il triangolo commerciale tra Europa, Africa, America per la tratta degli schiavi di colore. Nel 1713 (alla fine della guerra di successione spagnola) l’Inghilterra, oltre ad assicurarsi il controllo di Gibilterra, imponeva alla Spagna, che raggiungeva in quel secolo la fine della sua ascesa politica, militare ed economica dai tempi di Cristoforo Colombo, un trattato in virtù del quale di fatto raggiungeva il controllo pieno dei traffici umani. Gli inglesi amavano una battuta: i barbari iniziano a Calais! Calais era un piccolo porto a nord della Francia. Dall’inizio del Mille il re inglese, feudatario del re di Francia per il suo feudo in Normandia, aveva esteso i sui domini europei a discapito della monarchia francese. Fino alla metà del Trecento, quando inizia una guerra lunga cento anni (circa), per mezzo della quale la Francia, grazie all’eroina nazionale Giovanna d’Arco, riconquista tutti i territori che erano stati in mano inglese. Tranne Calais. Ad ogni modo, la battuta di spirito lasciava intuire una componente molto forte, per Losurdo intrinseca al liberalismo moderno, basata sul razzismo.
Si trattava di un razzismo religioso: gli inglesi amavano auto-interpretarsi come nuovo popolo eletto; i poveri erano i maledetti da Dio nella loro miseria e nel loro colpevole ozio; i «negri» erano inferiori. Quindi schiavi. La Spagna cattolica, che pur conobbe i conquistadores, aveva riconosciuto gli indios come esseri umani, per diritto naturale, e figli di Dio per battesimo. L’Inghilterra luterana non era di questo avviso. Ma Aristotele non c’entra nulla. Il ragionamento – condivisibile o meno – è rovesciato. Per i liberali tu sei inferiore per razza, quindi sei schiavo, quindi lavori; per Aristotele tu lavori, non ti elevi come uomo in senso stretto, non sei adatto alla politica, quindi sei schiavo.