
Il dilemma della comunicazione di diagnosi e prognosi al paziente malato grave
di Giorgia Brambilla*
Rivelami, Signore, la mia fine;
quale sia la misura dei miei giorni
e saprò quanto è breve la mia vita.
(Sal 39)
Il dolore è insito nell’identità stessa dell’uomo. E l’umanità, provata, si cimenta con esso abbozzando risposte: ora lo sublima, ora lo subisce, ora lo percepisce come ineluttabilità.
L’esperienza greca si configura come pathos, che è insieme empatia e compassione. La reazione del greco di fronte al dolore è «immedesimazione immediata col soffrire, quasi nel senso materiale dell’esser preso dalla pena»[1]. Secondo Kierkegaard,
nella tragedia antica la pena è più profonda, minore il dolore; nella tragedia moderna il dolore è più grande, minore la pena. (..)
Dal punto di vista psicologico, è molto interessante osservare un fanciullo quando vede un anziano patire. Il fanciullo non è abbastanza dotato di riflessione per provare dolore, eppure la sua pena è infinitamente profonda. (..) In perfetta e profonda armonia è la pena greca, ed è per questo che essa è ad un tempo tanto dolce e tanto profonda[2].
Il dolore è qualcosa che si prova e che, al tempo stesso, mette alla prova. Ed è proprio l’elemento probatorio a condurre alla domanda stessa di senso e, dunque, all’elemento esistenziale: unde malum? In questa domanda cruciale, poi, si colloca la scoperta di unione di tutto il genere umano: il dolore è veramente il ponte tra l’individuale e l’universale.
Se è vero, però, che nel dolore l’uomo è pienamente umano e riscopre la sua unità con l’umanità degli altri uomini, è altrettanto vero che uno dei tratti più sconvolgenti della sofferenza è dato dal fatto che essa traccia un vero e proprio solco di divisione intorno a chi soffre[3]. La via del dolore consente all’uomo di rientrare in se stesso scoprendo la sua peculiarità individuale, per il fatto stesso che nessuno potrà sostituirsi a lui nel suo dolore[4]. Non solo. Ma tale “separazione” avviene anche per opera degli altri, soprattutto, con l’avvicinarsi della morte; è quella che Spinsanti chiama “la congiura del silenzio”[5].
Fino a poco tempo fa, c’era un vero e proprio obbligo di coscienza di avvertire il malato che stava per morire, affinché egli non mancasse a quel grande e personalissimo evento. Seppure ieri, come oggi, la morte facesse paura, “morire bene” era un’arte – la cosiddetta ars moriendi – e l’ipotesi della “morte improvvisa” era fortemente scongiurata (“a subitanea et improvisa morte libera nos, Domine”).
Cosa avviene oggi? Prendiamo il caso del tabù della malattia oncologica, attorno alla quale superstizione vuole che sia meglio non nominarla neppure – il “male brutto” sentiamo dire spesso. Quante persone vengono realmente informate di quanto sta accadendo loro? Non si preferisce forse tacere, a costo persino di escluderli dalle decisioni terapeutiche che li riguardano? Scrive Spinsanti:
attorno a loro si estende la congiura del silenzio. L’uno o altro famigliare si vanterà poi di avere saputo celare al morente la natura del suo male fino all’ultimo. Alcuni [malati] non sanno, perché non vogliono sapere: anche questo è un loro diritto. Ma quanti malati terminali soffrono nell’anima dolori più atroci di quelli del corpo perché non possono parlare con nessuno delle loro emozioni di fronte alla fine che sentono imminente?[6]
Il compito di dare la notizia, prima, spettava al sacerdote, il quale, attraverso la somministrazione dei sacramenti, aveva il compito di recare un vero e santo conforto. Ora, per non spaventare il malato, si rimanda il più possibile, a tal punto che il ministro ormai arriva quando, magari, la persona non è più cosciente e quelli fatti su di lui diventano riti incomprensibili e lo stesso sacerdote viene ridotto a una specie di stregone.
Secondo l’antropologo Thomas, questa situazione è venuta a crearsi anche a causa della società che abbiamo costruito e nella quale viviamo[7]. L’autore, infatti, mette a confronto la società arcaica attuale e la società industriale. Prendiamo, ad esempio, il mondo africano. In questa realtà, il gruppo, il “clan”, si fa carico dell’individuo in tutte le sue grandi tappe evolutive – ne sono un esempio i vari riti iniziatici. Così accade pure per la morte. Nel nostro “milieu”, invece, l’individuo vive fondamentalmente isolato – ne è causa anche la scomparsa del modello famigliare di tipo patriarcale, specie in Italia. La morte sembra aver perso la dimensione del lutto: si muore soli e senza simboli.
L’uomo, potremmo dire, ha bisogno del simbolo, tutta la sua vita è costellata di simboli, è “animal symbolicum”[8]. Il termine greco “symbolon” indicava un contratto, scritto su una tavoletta in coccio e frantumato in pezzi dai “firmatari” come garanzia di autenticità di quanto stipulato. L’immagine rimanda all’unità conservata nella diversità.
La funzione originaria del simbolo sul piano antropologico è quella di creare un legame fra gli uomini, di determinare un atto sociale: la sua comunicabilità ha un valore reale solo se comprensibile e percepibile da un gruppo di uomini. Possiamo dire in sintesi che è l’attuazione di un evento d’incontro e il suo riconoscimento. Ciò che è importante in un simbolo non è la forma o il materiale di cui è composto, ma il rapporto significativo istituito in esso e per suo tramite, a cui quella forma o quel materiale rinvia[9].
Il simbolo ha due funzioni fondamentali, una “evocativa” e l’altra “operativa o performativa”. Quella evocativa indica il fatto che, a differenza del segno, il simbolo rende presente la realtà significata, nel senso che, come spiega Ortigues, ha la funzione di introdurci in un ordine di cui anch’esso fa parte[10]. La funzione operativa indica, invece, la sua capacità di «produrre una trasformazione, in quanto induce emozioni, sollecita sentimenti e immagini, genera relazioni nuove»[11].
Traslitterando a livello culturale il suo significato, proprio perché esso richiama il ricongiungimento dei pezzi costituenti un’unità, il simbolo racchiude in sé la funzione “mediatore di identità”, perché permette al singolo di riconoscersi come membro di un gruppo e di identificarsi con esso. Ecco perché è così importante nel contesto del morire.
In realtà, anche a livello sociale c’è un oblio della morte, strettamente legato a un oblio del senso della vita[12]. Scrive Boros: «La riflessione sulla morte (..) è il gesto con il quale l’uomo può ridare luce alla sua esistenza. Chi conosce la morte conosce anche la vita. E viceversa: chi dimentica la morte dimentica anche la vita»[13]. Del resto, scrive Palumbieri, «il niente della cultura, intesa come orchestrazione di valori cui riferirsi, ha creato la cultura del niente, con una marcata situazione di carenza di significato della vita e tendenza a nullificare tutto»[14]. Se la vita non ha significato, come potrebbe averlo la morte?
Allo stesso tempo, tanto è importante questo evento per l’essere umano che, per così dire, fatto uscire dalla porta, rientra dalla finestra. È tipica, infatti, della nostra realtà culturale un’ossessiva tendenza alla necrofilia e a una morte, quindi, disumanizzata e rappresentata solo nella sua violenta volgarità. Ecco che assistiamo, allora, ad una de-responsabilizzazione circa la morte, che è al tempo stesso una de-personalizzazione: “si muore”, direbbe Heidegger[15].
In riferimento a ciò, traendoli dal famoso testo di Ariès, “Storia della morte in Occidente”, ripercorriamo alcuni tra vari modelli di atteggiamento verso la morte nella nostra realtà culturale[16]. Abbiamo, infatti, la cosiddetta “morte addomesticata”, collocata al centro del contesto famigliare che la considera un evento doloroso ma naturale. Poi, c’è la “morte di sé”, intendendo il passaggio dall’idea della morte come evento collettivo ad uno più esistenziale ed individuale; fino ad arrivare alla “morte rovesciata” – quella del nostro tempo, secondo Ariès. La morte diventa qualcosa da nascondere allo sguardo e fortemente caratterizzata dalla medicalizzazione e dalla solitudine di una corsia d’ospedale. Molto edificante e capace di rappresentare al meglio quanto stiamo spiegando è il frammento riportato da Spinsanti di una lettera di una giovane infermiera malata alle infermiere incaricate di assisterla[17]:
Ho ancora da vivere da uno a sei mesi, forse un anno, ma a nessuno piace toccare questo argomento. Mi trovo, dunque, di fronte ad un muro solido e deserto, che è tutto quello che mi resta. Sono il simbolo della vostra paura, qualunque essa sia, della vostra paura di ciò che pur tuttavia noi sappiamo che dovremo affrontare tutti un giorno. (..)
Di che cosa avete dunque paura? Sono io che muoio. (..)
Tutto ciò che ho bisogno di sapere è che ci sarà qualcuno per tenermi la mano quando ne avrò bisogno. Ho paura. Voi forse avete fatto l’abitudine alla morte; per me è nuovo. Non mi è ancora capitato di morire.
Per Ricoeur, la morte dell’altro anticipa dentro chi lo assiste l’esperienza della propria morte: «Con l’orrore del silenzio degli assenti che non rispondono più, la morte dell’altro penetra in me come una lesione del nostro essere comune. La morte mi tocca. (..) E così anticipo la mia futura morte come la possibile non risposta di me stesso a tutte le parole di tutti gli uomini»[18].
All’interno dell’assistenza al morente è importante riflettere sul problema della verità al malato. Spesso dimentichiamo che il morente è prima di tutto un vivente! Dunque, è una persona ricca di emozioni, di desideri, di volontà. Ed è questo il punto. Quando diciamo che bisogna fare in modo che al malato non manchi la verità circa il suo stato di salute, non è per cercare un principio assoluto da perseguire, ma piuttosto un modo per mettere in luce che quell’essere umano, malato ma vivente, ha bisogno, oltre che desiderio, di essere ascoltato e accompagnato nell’appropinquarsi del tramonto della sua vita. E spesso è proprio il silenzio, perseguito più come fine che come mezzo, ad impedire una autentica relazione con il malato.
Per non parlare del fatto che, spesso, è il malato stesso a rendersi conto da solo della sua condizione, in virtù della vera e propria messa in scena che si svolge accanto a lui: medici, infermieri e soprattutto parenti che accumulano finzioni, facendo sentire la persona ancora più sola.
Ora, questo non vuol dire che si debba, al contrario, dire la verità ad ogni costo, facendola piombare dall’alto come un verdetto[19]. Ogni verità va espressa e ponderata attraverso carità e prudenza. Quella che va evitata è la falsificazione sistematica della realtà[20]. Così come si tratta nemmeno della ricerca di una prognosi circa il momento esatto della morte. Ciò che va ricercato, in realtà, è incredibilmente semplice: «si tratta della capacità di colui che assiste di stabilire col paziente una relazione tale che questi sia in grado di chiedere informazioni sulle sue condizioni e di trarne le opportune conseguenze»[21].
La sofferenza non è mai qualcosa di puramente biologico, nell’uomo il dolore si carica di significato. Proprio chi ha a cuore così intensamente la difesa della vita, non può esimersi dall’accudirla – in tutto ciò che questo concetto racchiude: dire la verità, adoperarsi per alleviare il dolore, instaurare un valido rapporto medico-paziente, favorire la vicinanza dei famigliari, ecc. Anzi, sono convinta che è proprio dal modo in cui viviamo e facciamo “vivere il morire” che viene misurato il nostro amore per la vita e per l’essere umano. Il resto è semplice flatus vocis.
Per riflettere, allora, sulla modalità di comunicazione, dobbiamo prima considerare come il malato si presenta a noi. Kübler-Ross descrive alcune fasi psicologiche del malato terminale che, evidentemente, condizionano la relazione medico-paziente[22]. Una prima fase è la negazione, il rifiuto della realtà. La morte è sempre qualcosa che “tocca agli altri”[23]; rendersi conto che è arrivato il proprio momento può produrre una forma confusionale. Una seconda fase è la ribellione: la persona prova una sensazione di frustrazione di fronte alla presa di coscienza idealizzata che gli “altri” sono sani e vivranno ancora a lungo e lei no. La ribellione si può estendere anche al piano spirituale: «Signore, perché permetti questo? Perché proprio a me?». Poi vi è il mercanteggiamento: un’accettazione parziale della realtà della malattia, accompagnata dal tentativo di negoziare sia con Dio sia con i medici[24]. In pratica, è come se il paziente volesse rimandare tra sé e sé l’evento nefasto che sente imminente, tentando forme di “baratto”: «Se guarisco, sarò buono, farò una visita al santuario, ecc.». Vi è poi la fase depressiva. Il malato si rende conto di cosa sta per lasciare: i propri affetti, le proprie attività, i luoghi cari, ecc. Tanto che, in questa fase, il paziente si chiude, vuole stare solo, in silenzio, per ripensare a quanto ha di più caro, cercando in certo qual modo di farlo presente, di riviverlo. E, infine, vi è l’accettazione. Dopo la tempesta, ecco la quiete. La persona accoglie coraggiosamente la sua situazione, chiamando a sé i propri cari, riconciliandosi con loro, rivolgendo loro un sereno “arrivederci”. È qui che la fiducia cessa di cercare rifugio nell’accanimento scientifico, per elevarsi verso altri “campi elisi”.
Comprendiamo, quindi, che tacere significa privare il malato di una multiformità di aspetti.
Tuttavia, se l’obbligo della verità è ineludibile, le modalità con cui essa viene esposta possono e devono variare a seconda di molteplici aspetti[25]: la cultura, l’emotività, ecc. L’esperienza insegna che la diagnosi infausta è accettata meglio se viene presentata «gradualmente, con il massimo tatto, con mezze parole e con molti silenzi»[26]. Come scrive Casson[27]:
spesso una tale comunicazione non necessita di parole esplicite, perché il malato giunge per proprio conto alla verità; anzi, questa è una verità, per così dire più vera, perché conquistata autonomamente; essa non è il solo nome scientifico di una malattia, ma diventa una realtà esistenziale filtrata attraverso la cultura e l’esperienza di ciascuno; è, insomma, una verità globale (..)
Approdiamo, quindi, al cum-patire, che consiste proprio nel conoscere personalmente la sofferenza e nel viverla come esperienza umanizzante[28], affinchè l’humanum renda accompagnamento ciò che era compassione.
* Dottore di ricerca in Bioetica – Professore a contratto presso Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma – Cultore della materia presso Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
[1] S.Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano, 1999, p.49.
[2] S.Kierkegaard, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, citato in S.Natoli, op.cit., pp.48-49.
[3] Cfr. S.Natoli, op.cit., p.15.
[4] Cfr. ibidem.
[5] Cfr. S.Spinsanti (ed), Umanizzare la malattia e la morte, Edizioni Paoline, Roma, 1980.
[6] S.Spinsanti, op.cit., p.7.
[7] Cfr. L.V.Thomas, Antropologia della morte, Garzanti, Milano, 1976.
[8] L’espressione è di Morel.
[9] C.Greco, L’esperienza religiosa, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004, p.45.
[10] Cfr. E.Ortigues, Le discours e le symbole, citato in C.Greco, op.cit., p.48.
[11] C.Greco, op.cit., p.47.
[12] Cfr. S.Palumbieri, L’uomo questo paradosso, Urbaniana University Press, Città del Vaticano, 2000, p.322.
[13] L. Boros, Mysterium mortis. L’uomo nella decisione ultima, Queriniana, Brescia, 1969, p.28.
[14] S.Palumbieri, op.cit., p.332.
[15] Cfr. M.Heidegger, Essere e tempo, (a cura di F.Volpi), Longanesi, Milano, 20053.
[16] Cfr. P.Aries, Storia della morte in Occidente, Rizzoli, Milano, 1978.
[17] S.Spinsanti, op.cit., p.57.
[18] P.Ricoeur, Vraie et fausse angoisse, citato in S.Palumbieri, op.cit., p.330.
[19] Cfr. S.Spinsanti, op.cit., p.60.
[20] Cfr. ibidem, p.61.
[21] Ibidem, p.95.
[22] Cfr. E.Kübler Ross, La morte e il morire, Cittadella, Assisi, 1984.
[23] Cfr. G.Russo, Il medico, Elledici, Roma, 2004, p.225.
[24] Cfr. ibidem, p.225.
[25] Cfr. Ibidem, p.227.
[26] Ibidem, p.228.
[27] F.F.Casson, Il medico generale internista e l’etica, citato in G.Russo, op.cit., p.228.
[28] Cfr. G.Russo, op.cit., p.197.
Quello che i ginecologi non dicono
Pubblicato in G.Brambilla (ed.), Sessualità, gender ed educazione, ESI, Napoli, 2015, pp.15-24.
Ci sono alcune lezioni in cui riesci a far sgranare gli occhi agli studenti quasi avessi detto loro che conosci un Avatar (che poi un po’ è vero, considerando l’ultimo tentativo di tuo figlio di spalmarsi il tubetto di tempera blu in faccia stile crema idratante). La lezione in cui ci riesco meglio è sicuramente quella in cui spiego gli effetti cosiddetti “secondari” di alcuni contraccettivi, classicamente considerati per quello che in realtà non sono e, per questo, somministrati, con così tanta leggerezza. Quello che cercherò di fare in questo breve spazio sarà dire ciò che comunemente i ginecologi non dicono relativamente a questo aspetto, partendo dalle basi del funzionamento del ciclo ovarico. Non mi propongo qui una trattazione esaustiva o innovativa dei vari contraccettivi; mio obiettivo è far comprendere in modo semplice che, al di là dagli aspetti morali sull’atto contraccettivo in quanto tale, non si ha nemmeno consapevolezza del funzionamento e, quindi, delle conseguenze dell’utilizzo dei contraccettivi. Quindi, mi soffermerò sugli aspetti che, vista la loro importanza e semplicità, ci si aspetterebbe che un ginecologo dicesse, se non altro per dare la possibilità di una scelta più consapevole.
-
Elementi di fisiologia del ciclo ovarico[2]
L’apparato genitale femminile ha quattro funzioni: fornire le cellule germinali femminili (cellula uovo); sintetizzare gli ormoni sessuali femminili; permettere il passaggio e la sopravvivenza degli spermatozoi in prossimità dell’ovulazione; porre le condizioni più favorevoli per il concepimento ed il mantenimento della gravidanza.
L’apparato genitale femminile è costituito dalle ovaie, dalle tube di Falloppio, dall’utero, dalla vagina e dai genitali esterni. Le ovaie sono gli organi in cui maturano le cellule germinali femminili. Alla nascita, in ciascun ovaio sono presenti da 700 mila a 2 milioni di cellule uovo. All’interno di esse vi sono i follicoli, che rappresentano l’unità funzionale dell’ovaio. Il follicolo è nello stesso tempo deputato sia alla maturazione e alla liberazione della cellula uovo sia alla produzione di ormoni sessuali femminili. Vi è anche il corpo luteo, che origina dal residuo follicolare dopo la liberazione della cellula uovo dal follicolo maturo (ovulazione) e produce estrogeni e soprattutto progesterone.
Le tube di Falloppio sono dei canali che servono per catturare la cellula uovo liberata dall’ovaio, a convogliare gli spermatozoi risaliti attraverso il canale cervicale e la cavità uterina fino alla cellula uovo e a trasportare, dopo il concepimento, l’embrione fino all’utero. Nella tuba avviene la fecondazione e le prime moltiplicazioni cellulari dell’embrione che, dopo 5-7 giorni, si impianterà nella mucosa uterina allo stadio di blastocisti. La mucosa tubarica è costituita da cellule che producono sostanze necessarie alla sopravvivenza dell’embrione e da cellule dotate di ciglia che, dopo il concepimento, convogliano e favoriscono la discesa dell’embrione verso l’utero, mentre prima del concepimento, rendono più difficoltosa la risalita degli spermatozoi[3].
L’utero è un organo muscolare cavo a forma di pera capovolta, costituito da due parti, il collo e il corpo. Il corpo è la porzione superiore e di maggiore dimensione e serve ad accogliere la gravidanza. È costituito da diversi strati; quello più interno si chiama endometrio. Esso va incontro a modificazioni cicliche per azione degli ormoni prodotti durante il ciclo ovarico. Il collo dell’utero, o cervice uterina, è il “portinaio” dell’utero. Consente l’eliminazione delle perdite ematiche mestruali, il transito degli spermatozoi e il passaggio del bambino al momento del parto. Il collo è attraversato dal canale cervicale che è rivestito da delle cripte che hanno una funzione ghiandolare.
La vagina è un canale muscolare che permette il rapporto sessuale e comunica con i genitali esterni. La vulva, che ha una funzione protettiva nei confronti dei genitali interni. I genitali esterni comprendono: grandi labbra, piccole labbra, monte di venere e clitoride. La ricca innervazione della vulva fa sì che la donna sia in grado di percepire l’eventuale presenza di muco cervicale che dal collo dell’utero, attraverso la vagina, si porta ai genitali esterni. Questa capacità, come vedremo, ha un’importanza fondamentale per la regolazione naturale della fertilità.
Tutte queste strutture interagiscono in quello che chiamiamo “ciclo ovarico”. Per ciclo ovarico si intende la sequenza delle varie tappe maturative (sviluppo del follicolo/ovulazione/formazione e regressione del corpo luteo) che si verificano ciclicamente nell’ovaio in risposta a stimoli specifici provenienti dal sistema nervoso centrale che possiamo chiamare “asse ipotalamo-ipofisi-gonadico”[4]. La funzione di questo asse è sostenuta da un fattore di liberazione ipotalamico e da due gonadotropine adenoipofisarie chiamate ormone luteinizzante (LH) e ormone follicolo stimolante (FSH), che regolano la secrezione degli ormoni sessuali da parte delle gonadi. Il fattore di liberazione delle gonadotropine è noto come GnRH (Gonadotropin Releasing Hormone). Quando avviene la mestruazione, gli ormoni ovarici sono molto bassi. Anzi, è proprio l’abbassamento dei livelli ormonali che provoca lo sfaldamento endometriale. Il messaggio ormonale prodotto dall’ipofisi è l’FSH.
Quando l’FSH raggiunge il “livello soglia”, le strutture bersaglio dell’FSH, i follicoli,iniziano a maturare. Tale maturazione provoca anche il rilascio, da parte dell’ovaio, di estrogeni. Quando l’FSH raggiunge il “livello intermedio”, gli estrogeni salgono rapidamente e ‘informano’ l’ipofisi della necessità di bloccare la stimolazione dei follicoli. Questo effetto inibitorio si chiama feedback negativo. Questo contribuisce al fatto che da quel momento un solo follicolo, il follicolo dominante, continui la sua maturazione, mentre gli altri regrediscano. La grande quantità di estrogeni prodotta dal follicolo stimola l’attività ciclica dell’ipotalamo: feedback positivo. Nel giro di 24-48 ore viene raggiunto un picco ematico di LH e FSH.
L’effetto dell’LH sul follicolo maturo è l’ovulazione, che avviene circa 17 ore dopo il picco di LH. Se non si verifica la fecondazione, la cellula uovo non sopravvive più di 6-12 ore. L’LH non determina solo la liberazione della cellula uovo, ma anche la trasformazione del residuo follicolare in un corpicciolo detto corpo luteo, capace di produrre estrogeni e progesterone. L’azione combinata di questi due ormoni permette l’impianto dell’embrione e il mantenimento della gravidanza.
Gli alti livelli di progesterone ed estrogeni provocano un blocco ipotalamo-ipofisario (feedback negativo), per cui è biologicamente impossibile che si verifichi un’altra ovulazione. Infatti, le gravidanze gemellari biovulari si verificano per una fecondazione di due ovuli, giunti a maturazione quasi in contemporanea, dietro stimolo dello stesso picco di LH[5].
Nel caso in cui non si sia verificata la gravidanza, i livelli plasmatici di progesterone e di estradiolo crollano e raggiungono i loro livelli più bassi alla fine della fase luteinica. La mucosa endouterina, non più sostenuta dagli ormoni, si sfalda e avviene la mestruazione. Se, invece, avviene il concepimento, il corpo luteo viene mantenuto in attività dall’ormone HCG (gonadotropina corionica umana), che trasforma il corpo luteo in “corpo luteo gravidico”, necessario a produrre gli ormoni per il mantenimento della gravidanza[6].
Questo è quanto avviene a livello ovarico. A livello cervicale, parallelamente all’andamento ormonale abbiamo una modificazione importante del muco cervicale, un idrogel composto per il 90% di acqua, in cui sono presenti elettroliti, zuccheri, proteine, grassi ed enzimi. Viene prodotto da speciali cellule del collo dell’utero sensibili ai livelli di estrogeni e progesterone. Il muco cervicale possiede alcune importanti proprietà. Una prima caratteristica è la “filanza”. Clift[7] nel 1945 descrisse il fenomeno chiamato “spinnbarkeit”, constatando che il muco forma dei filamenti di 10-12 cm di lunghezza a metà del ciclo mestruale, mentre nella fase iniziale e finale del ciclo si allunga solo di pochi cm. Ancora oggi viene usata la classificazione di Isler per lo “spinnbarkeit”. Un’altra caratteristica è il “ferning” mostra la proprietà del muco di cristallizzare se lasciato esiccare. Al microscopio ottico, fece notare Papanicolau[8], la tipica cristallizzazione a foglia di felce.
Mediante l’uso di un vetrino è possibile vedere sia lo spinnberkeit, sia il ferning e di questo, in particolare, la canalizzazione, ovvero la formazione di cristalli dendritici tra i quali sono presenti dei “canali”. Il numero dei canali aumenta man mano che ci si avvicina all’ovulazione determinando una crescente permeabilità del muco agli spermatozoi. Gli studi di Odeblad[9] hanno mostrato che ci sono nel corso del ciclo tipi diversi di muco, prodotti da cellule diverse del collo dell’utero. Le cripte situate nella parte inferiore del canale cervicale producono muco di tipo G, (Gestagenico) il quale chiude in basso l’orifizio cervicale esterno e impedisce agli spematozoi l’accesso alla cavità uterina. Questo quadro riflette inattività ovarica e, quindi, assenza di stimolazione del collo dell’utero a cui si associa una sensazione di asciutto. Il muco G è una sorta di rete, in cui le molecole proteiche si presentano disordinatamente con spazi intermicellari dell’ordine di 0,1-0,2μ. Considerando che la testa dello spermatozoo è della grandezza di 3,5μ, possiamo dire che esso ha una vera e propria funzione di tappo.
Con l’inizio della maturazione follicolare i livelli crescenti di estrogeni stimolano la secrezione di muco di tipo L (Loafs=masserelle) che aumenta percentualmente di giorno in giorno. Il muco L è secreto da cripte sparse per tutto il canale cervicale e maggiormente concentrate nel suo tratto intermedio. Quando la donna percepisce un cambiamento nella sensazione e vede la presenza del muco, ciò significa che gli estrogeni prodotti dal follicolo hanno iniziato a stimolare la cervice. Il tappo di muco viene gradualmente rimosso e, sciogliendosi, permette agli spermatozoi non solo di entrare, ma anche di sopravvivere. Nel muco L, infatti, gli spazi intermicellari misurano 1-3μ. Questo consente il passaggio degli spermatozoi, ma non la loro progressione.
Il muco S (Strings = filamenti) è secreto da cripte che si trovano nella parte superiore del canale cervicale, la cui produzione inizia alcuni giorni prima dell’ovulazione ed è stimolata, oltre che dall’elevato livello estrogenico, anche da sostanze del sistema neuro-ormonale (noradrenalina). Gli spazi delle micocelle del muco S sono più larghe della testa dello spermatozoo e permettono, quindi, alla testa di passare. Oltre a questo, il muco S costituirebbe il mezzo naturale nel quale nuoterebbero gli spermatozoi e nel quale possono sopravvivere fino a 3-5 giorni.
Il giorno dell’ovulazione il muco di tipo S costituisce il 30-40% della secrezione mucosa, il muco di tipo L il 50-60%, mentre solo il 5% il muco di tipo G. Col trascorrere dei giorni, la sensazione a livello vulvare subisce un incremento di intensità e il muco diventa sempre più fluido e acquoso. Questo fenomeno è correlato al picco degli estrogeni che precede l’ovulazione. Un altro muco, chiamato P (peak = picco) è inapprezzabile fino a 5 giorni prima dell’ovulazione, quando raggiunge un 3% per poi scendere e rialzarsi di nuovo il giorno del picco. Il muco P viene prodotto dalle cripte più alte del canale cervicale e svolge un’attività mucolitica. La brusca riduzione dei livelli estrogenici e l’aumento del progesterone, che si verificano con l’ovulazione, sono la causa dell’aumento progressivo del muco di tipo G che, nell’arco di tre giorni, arriva a costituire il 100% della secrezione e che perdura per tutta la fase post-ovulatoria. Il progesterone induce la formazione del tappo che, circa in tre giorni, richiuderà di nuovo il canale cervicale, bloccando il passaggio degli spermatozoi.
2. Contraccettivi o antinidatori?
Dopo questa breve e sommaria analisi, già è facile comprendere che l’azione degli ormoni ovarici, estrogeni e progesterone agiscono a più livelli sulla sfera genitale femminile. Dunque, pensare che la somministrazione degli estroprogestinici a scopo contraccettivo abbia come risultato esclusivamente l’assenza dell’ovulazione o che l’inserimento dello IUD abbia il solo scopo di “intercettare” gli spermatozoi impedendone la risalita è riduttivo, se non assurdo. È opportuna una ulteriore precisazione. La gravidanza si è comunemente intesa come «il periodo che va dal concepimento al parto»[10], tanto che la “datazione” della gravidanza parte dalla data dell’ultima mestruazione – essendo l’unica data certa che la donna può riferire – e quando si confronta questo dato con l’età reale del bambino la si fa decorrere dal giorno del presunto concepimento. Dunque, c’è uno scarto di due settimane (40 o 38 settimane) a seconda se si consideri l’ultima mestruazione o il concepimento. Ma a nessuno è mai venuto in mente di dire che la gravidanza dura 37 settimane considerando come inizio l’impianto dell’embrione. In relazione alle tecniche di fecondazione in vitro, poiché nel lasso di tempo che intercorre la fecondazione in provetta, lo sviluppo fino a un certo stadio e l’impianto in utero, la futura madre ovviamente non può dirsi in gravidanza, l’American Congress of Obstetricians and Gynecologists (A.C.O.G.) e l’Associazione Medica Americana (A.M.A.) hanno proposto e stabilito che la gravidanza inizi con l’impianto. È ovvio che, allora, se l’aborto è l’interruzione della gravidanza e la gravidanza comincia con l’impianto, tutto ciò che avviene prima dell’impianto non può essere considerato aborto, sebbene – basta sfogliare un manuale qualsiasi di embriologia – l’embrione sia già un essere umano vivente a tutti gli effetti. Di conseguenza, tutto ciò che agisce impedendo l’impianto e non già l’unione tra i gameti è considerato “contra-ccettivo” sebbene i suoi effetti, primari o secondari che siano, non mirino a “contra-concepire”, in quanto tali effetti agiscono su chi è già stato concepito e dunque già c’è. Cercherò di descrivere questi effetti, perché credo, come già accennato, che il professionista che presenta alla paziente i “contraccettivi” lo debba fare con onestà intellettuale, dandole la possibilità di confrontarsi autenticamente con la propria coscienza. Non solo. Il cambio della nomenclatura non cambia la realtà delle cose.
Per comprendere più a fondo la natura antinidatoria dei prodotti comunemente proposti come “contraccettivi”, partiamo dalla comune “pillola” estro-progestinica, che, oltre al blocco dell’ovulazione, ha i seguenti effetti[11]:
a) variazione della motilità tubarica ostacolata o precoce con interferenza sulla discesa dell’ovocita e dell’embrione;
b) modificazione della mucosa endometriale con impedimento all’annidamento dell’embrione;
c) modificazione del muco cervicale che si rende impenetrabile alla penetrazione degli spermatozoi.
È bene sottolineare che ecograficamente durante l’assunzione della pillola, si riscontra attività follicolare, pertanto gli effetti periferici appena elencati non sono affatto secondari, ma rafforzano quello primario.
Cominciamo dal primo effetto. A livello tubarico, il progestinico influenza l’attività secretoria e soprattutto quella contrattile. Se il normale movimento, mentre rende più difficoltosa la risalita degli spermatozoi, ma favorita la discesa dello zigote verso l’utero, una variazione della motilità può causare, laddove avvenisse un concepimento durante l’impiego della pillola, un arrivo “desincronizzato” dell’embrione nella cavità uterina rispetto alla finestra d’impianto, con conseguente effetto antinidatorio.
Per quanto riguarda l’azione a livello dell’endometrio, il progestinico modifica la struttura dello stesso sì da renderlo inadatto all’impianto dell’embrione. Inoltre, riducendosi la produzione di glicogeno si riduce l’energia disponibile per la sopravvivenza dell’embrione (blastocisti) nella cavità uterina[12]. In particolare le azioni svolte dal progestinico sono le seguenti: blocco della neosintesi dei recettori per gli estrogeni e per il progesterone, atrofia delle ghiandole, riduzione della moltiplicazione cellulare, decidualizzazione con trasformazione secretoria transitoria e incompleta dell’endometrio[13]. Mi sembra interessante qui fare un confronto con un altro prodotto che ha il compito di rendere inospitale l’utero, ovvero la spirale o Intra Uterine Device (IUD), ovvero un dispositivo che si colloca in prossimità del fondo dell’utero occupandone l’intera cavità. La presenza della spirale, com’è facile intuire, provoca una reazione di tipo infiammatorio che già di per sé rende inospitale la cavità.
A potenziare la tossicità dell’“ambiente” vi è il rilascio di progesterone da parte di alcuni dispositivi o la presenza di rame. Infatti, se inizialmente l’anello di Ota – precursore dell’attuale spirale – era ricoperto di argento e successivamente di materiale plastico (polietilene), intorno agli anni Sessanta si è scoperto che l’aggiunta di rame incrementava l’efficacia, fino ai dispostivi di seconda generazione che rilasciano quantità biologicamente attive di rame. Negli anni Settanta vengono studiati dei dispositivi capaci di rilasciare progesterone. Attualmente distinguiamo due tipi di dispositivi: medicati (rame o progesterone) e non medicati (polietilene). Il Population Council ha sviluppato uno IUD con Levonorgestrel a rilascio graduato che dura fino a 5-7 anni. Il dispositivo può essere utilizzato anche per la cosiddetta “contraccezione d’emergenza” (CE): viene inserito entro 5 giorni dal rapporto presunto fecondante, con un’efficacia pari al 99%.
A questo proposito, mi sembra importante accennare alla contraccezione d’emergenza[14] (CE). È bene comprendere che gli spermatozoi deposti profondamente in vagina nei giorni fertili preovulatori raggiungono il canale cervicale in pochi secondi e di seguito la cavità uterina e la tuba grazie alla cascata di muco cervicale fertile. Per evitare che cominci una gravidanza vi sono solo due alternative: impedire che avvenga l’ovulazione oppure fare in modo che l’embrione, una volta sceso in utero, non possa impiantarsi. Si definisce CE l’assunzione di ormoni o l’applicazione di dispositivi uterini (IUD) al fine di prevenire gravidanze indesiderate, entro 72-120 ore dal rapporto non protetto, per porre rimedio ad una metodica contraccettiva fallita. Il Levonorgestrel (LNG) secondo la Federazione Internazionale dei Ginecologi e Ostetrici (FIGO), preso ad alte dosi, svolgerebbe entrambe queste funzioni. In realtà, la letteratura in merito[15] mostra che LNG è in grado di inibire l’ovulazione solo se assunto prima dell’inizio della fase più fertile del ciclo e dunque non nei giorni pre-ovulatori. L’ovulazione dopo assunzione LNG presenta comunque una carenza progestinica, per una fase luteale inadeguata. Già sappiamo cosa questo significa a livello endometriale: ambiente inospitale. Dunque, l’effetto principale della “pillola del giorno dopo” è antinidatorio e non propriamente anovulatorio.
Ancora più ingannevole è l’Ulipristal acetato, principio attivo di “ellaOne”, comunemente denominata “pillola dei cinque giorni dopo”. L’azienda produttrice lo presenta come capace di ritardare l’ovulazione, con un effetto antiovulatorio; in realtà, gli studi sperimentali[16] dimostrano che all’interno della finestra fertile questo è vero solo nei giorni che precedono il picco di LH. Nel giorno del picco, quello di massima fertilità, l’Ulipristal non riesce a bloccare l’ovulazione. Eppure la sua “efficacia” risulta molto alta, quasi l’80%[17]. Il punto è: efficace a fare cosa? Come fa ad essere “efficace” se può essere assunto fino a cinque giorni dopo il rapporto presunto fecondante, se addirittura quel rapporto è potuto avvenire il giorno prima dell’ovulazione, cioè quando abbiamo detto che, dopo il picco di LH, esso non è più in grado di bloccare l’ovulazione? Ulipristal è un modulatore selettivo del recettore progestinico, la stessa categoria cui appartiene anche il Mifepristone, il principio attivo della RU486. L’assunzione di una singola dose di Ulipristal altera i recettori progestinici presenti nel tessuto endometriale rendendolo inospitale. Siamo ancora una volta davanti ad un effetto antinidatorio e non contraccettivo.
L’ultimo aspetto è di altra matrice e non si tratta di un effetto antinidatorio, ma ritengo sia degno di nota, proprio considerando che quello dell’infertilità oggi è un dato in crescita. Gli estro-progestinici esercitano un effetto importante sul muco cervicale, in termini di modificazioni a carico del muco stesso prodotto dalle ghiandole cervicali come aumento della viscosità, riduzione della filanza tali da rendere il muco poco penetrabile da parte degli spermatozoi. La componente progestinica della pillola, infatti, stimola la produzione di muco denso che, creando un ostacolo alla penetrazione e sopravvivenza degli spermatozoi, costituisce una barriera, riducendo significativamente le possibilità di fecondazione. Odeblad ha dimostrato[18] che la pillola provoca a livello del collo dell’utero l’atrofia della cellule della parte superiore di esso, cioè quelle che producono muco S e P, constatando che quanto più a lungo la donna assume la pillola tanto maggiori sarebbero i danni alle cripte, fino alla progressiva sostituzione di queste con cripte secernenti muco G, cioè muco infertile. Ora, bisognerebbe studiare l’elemento determinante il cambiamento delle cripte, ma sicuramente possiamo affermare che la variabile tempo può diventare un elemento aggravante in quanto, se non altro, aumenta la probabilità che questo avvenga, considerando il gap tra l’età del primo rapporto sessuale e quella del primo figlio.
-
Il peso morale della scelta
Dopo questo breve excursus, risulta chiaro che non si può considerare come un blocco unitario la contraccezione né dal punto di vista scientifico, in quanto spesso vengono proposti e assunti prodotti che contraccettivi non sono, né dal punto di vista morale, perché ci troviamo di fronte ad atti molto diversi. Infatti, l’illiceità della contraccezione propriamente detta risiede nella snaturazione dell’atto sessuale intrinsecamente dotato di due significati – unitivo e procreativo. Nell’utilizzo degli antinidatori, il peso morale comprende l’effetto abortivo di questi prodotti che, come abbiamo visto, è direttamente ricercato e per nulla “secondario”. Pertanto, l’atto si carica di una connotazione ancora più grave che è quella antivita, in quanto, lo ribadiamo senza mezzi termini, trattasi di effetti abortivi: se il concepimento avviene, queste sostanze impediscono il proseguimento della gravidanza.
È interessante notare che la contraccezione viene presentata come l’emblema della libertà di scelta, quando, invece, per lo più non si sa realmente cosa si sta facendo quando si sceglie di evitare una gravidanza. Cosa temono i ginecologi (o forse le case produttrici)? Che con la presa di coscienza, molte pazienti possano fare un passo indietro, dissuase dalla consapevolezza che la loro “libertà sessuale” causerebbe la perdita di vite umane? Se si è così sicuri dei vantaggi di evitare una gravidanza, magari perché “indesiderata”, come del fatto che, prima dell’impianto non si parla nemmeno più di gravidanza e che non va data tutta questa importanza a quel figlio formato 36 cellule, perché boicottare queste informazioni, perché non dire, in modo limpido, tutta la verità?
Come diceva Chesterton, essere sicuri che qualcosa è vero equivale ad avere il coraggio di dirlo a un bambino.
[1] Pubblicato in G.Brambilla (ed.), Sessualità, gender ed educazione, ESI, Napoli, 2015, pp.15-24.
[2] Per una trattazione esaustiva si consigliano: G.B.Candiani, V.Danesino, A.Gastaldi (edd.), La clinica ostetrica e ginecologica, Masson, 19962; M.De Felici et Al, Ebriologia Umana, Piccin, Padova, 2014.
[3] Agli studenti spiego che è come se gli spermatozoi andassero contro vento
[4] Cfr. A Bompiani (ed.), I metodi naturali per la regolazione della fertilità, Centro studi e ricerche per la regolazione naturale della fertilità, Roma, 2014.
[5] R.M.Berne, M.N.Levy, Principi di Fisiologia, Casa editrice ambrosiana, Milano, 20106.
[6] Cfr.G. Pescetto, L. De Cecco, D. Pecorari e N. Ragni, Ginecologia e Ostetricia, SEU, Roma, 200910.
[7] Cfr. P.Castellucci, Il muco cervicale: fattore ed indicatore di fertilità, in A.Bompiani, op.cit., pp.37-50.
[8] Ibidem
[9] Ibidem
[10] B.Mozzanega, Da vita a vita, SEI, Roma, 20133, p.223.
[11] Cfr. P.Castellucci, Il metodo Billings alla sospensione dei contraccettivi orali, in A.Bompiani, op.cit., p.138.
[12] Cfr. S.S.C. Yen, R.B.Jaffe, R.L.Barbieri, Endocrinologia della riproduzione. Fisiologia, fisiopatologia e aspetti clinici, Verduci, Roma, 2000, p.725.
[13] Cfr. L.Speroff, P.D. Darney, A clinical guide for contraception,Lippincott-Williams & Wilkins, Philadelphia, 2000.
[14] Cfr. L.Romano, M.L. Di Pietro, M.P.Faggioni, M.Casini, RU-486. Dall’aborto chimico alla contraccezione di emergenza, Art, Roma, 2008.
[15] B.Mozzanega, op.cit., p.200.
[16] Ibidem
[17] Ibidem, p.203.
[18] P.Castellucci, Il metodo Billings alla sospensione dei contraccettivi orali, in A.Bompiani, op.cit., p.139.