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Non sono di Socrate

         Aristotele giustifica la socialità del saggio nella sua natura di animale politico: l’uomo, qualsiasi uomo, non può essere solitario – sarebbe una bestia o un dio –; per nessun uomo l’autosufficienza può essere assoluta: l’amicizia del saggio diventa la modalità di esplicare la sua autarchia oggettivando la sua saggezza nel fare del bene ad un altro, all’amico o ad un gruppo ristretto di amici scelti secondo virtù. Il cristiano che vive nella comunità non è un saggio, ma un cristiano appunto, un uomo che fa suo il principio – che diventa in senso stretto la «conditio giacomea» – di vivere secondo la volontà del suo Signore: «Se il Signore vuole, vivremo e faremo questo e quello». Il cristiano può liberamente compiere la legge, non tanto perché è la legge che lo fa libero, quanto perché è la realizzazione che di essa ha fatto Cristo a conferirgli una nuova libertà di perfezione, quale è quella dell’amore come dono di sé. Non si tratta né di un imperativo etico, né di un insieme di precetti e norme legali, né di una adesione a una forma religiosa di culto legale o rituale. Si tratta, invece, di uniformare sé all’amore di Dio, senza ridurre Dio entro i confini della sola ragione.

La misura greca è la contemplazione razionale; la felicità è esercizio di ragione; l’identità socratica di virtù e scienza indica la priorità del dominio dell’anima e nell’anima da parte del logos: l’oggettivazione morale avviene all’interno dell’ambito politico e in un orizzonte cosmo-centrico in cui l’uomo «resta soggetto a nei confronti dell’ananke e della tyche, la necessità e il fato»[1]. La relazione antropologica con il divino è relazione di razionalità anche come eccellenza etica, ma non è possibile specificare tale relazione in termini di iconicità. «Lo specifico antropologico dell’ebraismo-cristianesimo è dato dalla struttura dell’iconicità. L’uomo, fin dalle prime pagine bibliche, è presentato come “immagine somigliantissima”. Per conoscere l’uomo, bisogna conoscere la struttura dell’essere del suo modello. Ora, gli aspetti di Dio che sono infiniti, si rannodano in questo messaggio a due matrici, che sono la dynamis e l’agape. La potenza  e l’amore non sono giustapponibili, ma risultano articolati e gerarchizzati. Dio non è solo potenza e amore, ma è presentato come onnipotenza in funzione dell’amore. È la concezione basilare della creazione. Ora, l’anima della onnipotenza dell’amore è la libertà. Così, con la mediazione della iconicità, si ottiene che la struttura costitutiva dell’uomo – riproduzione di quella di Dio e, dunque, di tipo teomorfo – è anche’essa attitudine di dinamismo e di amore. Per la prima, l’uomo è capacità di creatività, per la seconda, è capacità di oblatività. Per la prima, gode della signoria sul cosmo, espressa nel comando genesiaco di soggiogare e dominare la terra. Per la seconda, non trova pienezza di gioia se non nella vita di comunione»[2]. La Legge perfetta della libertà esprime questa soggettivazione antropologica che segna il passaggio anche rispetto all’etica vetero-testamentaria, a vantaggio di una dialettica che può darsi solo nell’ottica cristiana. Non trovo cosa si possa evidenziare come differenza tra tale costituzione, che si applica nel binomio fede-opere, e la fede di cui parla Paolo in Gal 5,6. L’agire etico è espressione naturalizzante come tensione tra la tentazione e la perseveranza, la bramosia e la paziente umiltà; e questa tensione diviene sostanziale ed essenziale nello spazio vivo della comunità di fratelli in Cristo, in cui la divisione esemplificata dal binomio superbia-gelosia è assunta a contraddizione massima dell’amore reciproco. Non si tratta di una organicità di sistema, ma di un essere-per-l’altro, che Giacomo sintetizza nell’invito a mostrare le proprie opere ispirate a saggia mitezza (cfr. Gc 3,13), e comprende nella sapienza che viene dall’alto e nella trascendenza della parousia.

Qui c’è tutto lo scarto per il tipo di ideale etico socratico. Socrate è morto per rispetto filiale delle Leggi patrie, ha insegnato a non resistere al male e a preferire l’ingiustizia subita più che compiuta, esercitando negativamente e positivamente la sua libertà, coerente con i propri principi e saggio secondo il suo logos e il suo daimon, nella tragicità dello sforzo di «convincere se e gli amici che si può essere agathoi rifiutando l’arete individuale di tradizione eroica, e accettando, invece – con tutte le rinunce che ciò comporta – uno stile di vita cooperativo, basato sull’obbedienza alla legge, e su valori come la dikaiosyne e la sophrosyne che da essa dipendono», pur essendo «disposto a morire per testimoniare questa posizione, dell’estrema fedeltà del cittadino di fronte a una polis che pure lo condannava ingiustamente», e pur diventando «alla fine del V secolo, l’eroe eponimo dell’impresa educativa della città, l’uomo isonomico per eccellenza, che ha saputo essere tale quale la città se lo attendeva»[3]. L’intellettualismo etico di Socrate e la duplice idea che la felicità sia connessa con la giustizia indipendentemente dall’immortalità dell’anima rappresentano una forma di «laicizzazione politica» del problema morale che, basandosi sulla doppia equazione legge-giustizia-felicità e virtù-scienza, subisce una interiorizzazione razionale capace di superare sia la tradizione della virtù eroica omerica – che impedisce, in nome dell’onore e del riconoscimento, una socialità possibile – sia la tradizione orfico-pitagorica – che sì riconduce l’etica all’anima dell’individuo, ma contestualizza questa novità nei meccanismi di iniziazione religiosa e settaria, di per sé, alternativi alla comunità familiare e societaria: «il tema dell’anima è dunque portato di fronte alla città; c’è, in questo, una laicizzazione, che lo sottrae al contesto iniziatico delle sètte religiose, e il tentativo di una mediazione difficile tra due culture allogene. La laicizzazione è necessaria per cancellare il carattere demonico, sovra individuale, tradizionalmente proprio dell’anima, e per trasformarla invece nel fondamento della soggettività morale»[4]. La stessa interiorizzazione del giudice personale garantisce la fedeltà filiale alle leggi, secondo lo sviluppo soloniano della universalità e della isonomia, e offre, per mezzo della fiducia nella ragione e della dottrina della cura di sé, il superamento di quella empasse tra legge positiva della città e legge-non-scritta che l’Antigone di Sofocle pone tragicamente. Senza che Socrate si sia posto il problema della creazione, a propria immagine da parte di Dio, dell’uomo come essere libero – la croce della filosofia per Kierkegaard – anticipa perfettamente Kant e la sua soluzione pratica: «all’uomo è stato assegnato il compito di creare se stesso come persona. Egli deve e può farsi tale, perché è autonomo nell’atto in cui si sottomette alla legge del dovere»[5]. In Kant «il fatto che l’uomo, e solo, lui, come essere sensibile-soprasensibile possa conformare se stesso all’ideale della persona, cioè a Dio, e possa porsi infinitamente al di sopra della sfera della sua e di ogni natura, è una possibilità che resta, però, un enigma»[6]. In Socrate l’enigma è ricondotto alla purezza monistica della psyché che non contempla il male radicale, cosicché, il migliorare se stessi, per mezzo di una vita condotta secondo ragione, il valore morale dell’uomo socratico, atto a raggiungere la felicità attraverso la virtù, in quanto scienza etica, e la conoscenza del bene, in quanto prerogativa essenziale e direttamente implicante l’azione giusta, a vantaggio dell’anima, raggiungono un così elevato valore da qualificarne, per dignità, l’intrinseco senso e significato ontologico ed esistenziale. Un senso che non si arresta neppure di fronte alla morte, che non fa fuggire di fronte alla consapevolezza di agire secondo la legge e – quindi – secondo giustizia, cercando, sempre, ciò che è buono e giusto, reputando l’azione malvagia frutto di ignoranza. «Ora, al tramonto della sua vita, era ancora una volta costretto a comparire con la sua opera davanti al pubblico; ed era deciso ad affrontare in pieno questa necessità. Era la gran prova della sua vita e della sua opera; ed era ben certo che l’avrebbe sostenuta. A tal uopo occorreva non soltanto che egli, in questa situazione, rimanesse fedele a se stesso anche nelle minime cose, che proclamasse in pubblico l’opera sua senza riguardi, e che non rinunziasse neanche in minima parte ai suoi principi e ai suoi propositi; davanti al tribunale egli doveva continuare anche positivamente a fare la parte sostenuta sinora, e sfruttare con tutte le sue forze la grande opportunità che gli si offriva di far propaganda per la sua opera morale davanti agli occhi di tutta la Grecia»[7]. La ragione che lo ha guidato nella sue scelte di vita, lo guida, ancor di più, nella scelta di fronte alla morte, di fronte ai responsabili dell’ingiustizia che subisce. Appare, secondo quanto anche gli stoici erediteranno, così libero dalle passioni, dalla paura, dalle azioni altrui, anche quelle ingiuste, e ingiuste nei suoi personali confronti, da esaltare infinitivamente il principio di vita per cui si è sempre battuto, per cui andava indagando per tutta Atene. A vincere è il senso di una morale e di una giustizia: della legge. Ma in fondo, a me pare, a vincere è il senso di sé: è il senso del proprio io, del proprio principio, della propria idea, in virtù di una fede, che gli permette apparentemente di non cedere, nella sua accettazione razionale della morte, al nichilismo. Lascio alla questione socratica determinare se lo stesso filosofare socratico abbia contenuto nichilista, anche se la posizione assunta da Ricci – sul modo puramente strumentale e dialettico delle conclusioni delle confutazioni di Socrate che avverrebbero sempre per autocontraddizione dell’avversario, senza che Socrate conosca effettivamente ciò intorno a cui confuta, o dia valore in sé alle conclusioni delle confutazioni, preoccupato solo di escludere qualsiasi pretesa di universalità delle definizioni – mi ha lasciato perplesso[8]. Snell, invece,  è stato perentorio sull’anti-nichilismo socratico (almeno sul piano esistenziale): «Socrate non cade nel nichilismo. Poiché tre cose gli danno incrollabile sostegno, tre cose che già le più antiche massime di virtù ci hanno fatto conoscere e che riaffiorano in forma più pura in lui, come elementi fondamentali della morale. La prima è il demone, la voce divina che lo mette in guardia contro il male. […]. La seconda è la fede assoluta nel significato di un’azione condotta in conformità a ciò che si ritiene sia bene, e nel valore del compito che ogni uomo ha nella vita e che non gli è stato assegnato per burla. Socrate ha suggellato questo insegnamento con la sua morte. La terza è la convinzione che l’uomo partecipa dell’universale e del duraturo attraverso la conoscenza»[9]. L’uomo Socrate vince, in tutta la sua persona, con tutto se stesso, con tutti i suoi ideali. Rispettando fino in fondo le leggi patrie, vince di fronte a se stesso. In perfetta armonia «con una forma di vita in quanto adesione ad essa in piena liberà politica»; in perfetta armonia «con se stessi, nella misura in cui si è cittadini. Socrate non intende rinnegare se stesso, non vuol tradire la forma di vita grazie alla quale e nella quale egli è, perché non vuol diventare nemico a se stesso. E poiché, secondo quanto affermato nella Repubblica, il consenso e l’armonia sono giusti, mentre il dissidio e la discordia hanno già nel singolo il carattere dell’ingiustizia, Socrate è giusto nel suo patriottismo; egli vive la sua forma di giustizia politica, una forma che i colpevoli ateniesi non possono esigere da lui. La morte non è per Socrate un martirio filosofico e neppure una lezione di educazione civica che egli possa impartire agli ateniesi, ma l’unica possibilità, dopo che è stato condannato, di essere in armonia con se stesso e dunque buono»[10]. Ma è proprio in questa armonia il senso del limite, sia ottenuta per mezzo della volutas o della noluntas, per richiamarci volutamente a Schopenhauer. Per Nietzsche, Socrate e Schopenhauer sono a diverso titolo rappresentati e promotori di un nichilismo passivo, apollineo il primo, rinunciatario il secondo. Io concorderei con Nietzsche, pur cosciente che «in Schopenhauer il socratico conosci te stesso diviene auto rappresentazione sofferta del proprio destino e del destino cosmico: “visione dell’inferno” e della storia come “catastrofe”»[11]; pur accettando la precisazione di Negroni che «il nulla dunque a cui perviene la filosofia di Schopenhauer non è – ci avverte l’autore – il nulla assoluto, ma il nulla relativo e la necessità di esprimerci con tale termine può ricollegarsi alla limitatezza, alla ristrettezza della condizione umana»[12]. Ma concorderei con Nietzsche a due condizioni: associare il nichilismo anti-umano di Schopenhauer – senza rendere merito al nichilismo dell’oltreuomo – a quello orientale (senza troppi sofismi sulla differenza tra mistico e filosofo); attribuire la matrice del nichilismo socratico senza rendere merito all’antitesi Dionisio-Apollo, né al tentativo conciliante operato da Colli, che in realtà assorbe Apollo in Dionisio, insistendo sull’evidenza archetipa del «collegamento tra “mania e Apollo», fa della follia «la matrice della sapienza», tanto da concludere che «se una ricerca delle origini della sapienza nella Grecia arcaica ci porta in direzione dell’oracolo delfico, della significazione complessa del dio Apollo, la “mania” ci si presenta come ancora più primordiale, come sfondo del fenomeno della divinizzazione»[13].

La mia impressione è che in Socrate si prevenga ad una forma specifica di nichilismo: il nulla dell’altro, che altro non è che il riflesso del concetto stoico – e mai cristiano – di oikeiosis. Al di là dell’inefficacia dell’intellettualismo etico, superato già da Platone, il senso del limite del «sacrificio filosofico» di Socrate… è Socrate stesso. L’armonia etica, il perfetto codice politico, la compiuta adesione razionale al bene sono misura di una vita che basta a se stessa, nella sua autonomia asettica. Nell’auto-referenzialità di un’idea. L’uomo Socrate non risponde all’ingiustizia subita con un’altra ingiustizia perché guarda come fine maggiore e stimabile, come più dignitoso e conveniente per la propria anima – cioè, fondamentalmente, per se stesso –, il proprio principio: l’idea di legge e  di giustizia. Un’idea incontestabilmente nobilissima ma un’idea alla quale si decide, con coraggio, di restare coerenti di fronte a tutto e a tutti, incarnando l’«idealità della morte», come si esprimerebbe Vernant, dell’eroe filosofico. Tutto ciò che si compie, si compie nella propria anima. Se il vero scopo della vita è migliorare l’anima, e il male peggiore è il male dell’anima, è naturale che tutto ciò che può giovare affinché l’anima sia giusta e buona è da ricercare e accettare, fosse anche lo sconto di una pena; questo è in realtà una forma di liberazione, purificazione. Non solo. Si capisce meglio il motivo intrinseco del non rispondere ad una ingiustizia con un’altra: la ragione non risiede tanto nell’altro, quanto in se stessi, nella propria anima, la quale, da tale azione, ne trarrebbe uno svantaggio. Anche di fronte alla morte, ciò che conta davvero, e che interessa unicamente Socrate, risulta la propria anima: ad essa è imprescindibilmente legata e razionalmente connessa ogni scelta, a partire, come è ovvio, da quella etica. Si potrebbe dire che, parafrasando l’espressione di Snell, ivi riportata, Socrate, con la propria morte suggella definitivamente, con l’esempio più grande possibile, questa convinzione di ricercare il bene, il proprio bene, quello della propria anima. L’insegnamento socratico – non bisogna rispondere con l’ingiustizia, né fare del male ad alcuno degli uomini, neppure quando tu abbia subito un qualsiasi male da loro –, trova piena realizzazione e giustificazione in una prospettiva assolutamente morale, in cui il bene della propria anima, una volta conosciuto, diventa l’elemento semantico ed esistenziale definitivo. Come l’insegnamento socratico di risolve, esaurendosi, nella morale, così il bene dell’uomo si risolve nel bene della propria anima, e il bene dell’anima in se stesso. L’anima, conosciuto il bene, si muove verso di esso, si completa nel raggiungimento di esso. Questo è il più nobile scopo etico, ma esistenziale in generale, che l’anima, nella prospettiva socratica, possa avere. E questo spiega il senso dell’aforisma iniziale: rispondere al male con il male arrecherebbe alla propria anima un male, e un male peggiore di quello subito; l’azione malvagia è da rifiutare perché, qualsiasi essa sia non giova veramente all’uomo; l’azione ingiusta, anche di fronte ad un torto, peggiorerebbe la condizione della propria anima: essa non ne avrebbe nessun vantaggio. Si coglie una specie di circolo (vizioso) tra l’anima e se stessa, nel senso che tutto si risolve all’interno e nella prospettiva dell’anima medesima. Solo in parte, alla luce di ciò, può essere accolta l’opinione di Jaeger circa l’eredità occidentale del concetto greco di anima appunto: è vero infatti che «la parola anima, per noi, in grazia delle correnti spirituali per cui è passata nella storia, suona sempre con un accento etico o religioso; come altre parole: “servizio di Dio” e “cura della anime”. Ma questo alto significato, essa lo ha preso per la prima volta nella predicazione protettica di Socrate»[14]. Sarri ha approfondito questa tesi sostenendo che il pensiero cristiano, lungi dal creare il concetto di anima «trovò sul nascere una concezione dell’anima già elaborata da una tradizione plurisecolare e, con opportune modifiche, la ritenne perfettamente in linea con la Rivelazione», fino a sussumere la dimensione personalistica, «la fondante dimensione platonica dell’anima come ente spirituale, correggendo e completando la prospettiva del Fedone con il teorema della creazione», «la dimensione orfico-pitagorica-platonica, ossia la dimensione escatologica dell’anima, rivedendola alla luce della promessa divina»[15]. Se è certamente vero lo sviluppo semantico che da Omero il termine psyché subisce fino alla filosofia del V secolo, attraverso l’orfismo, Eraclito, Democrito, differenziandosi via via dal livello cosmologico-naturale per giungere con Socrate al significato proprio e individuale di coscienza razionale, identificando l’uomo stesso con la sua anima, è molto più problematico il concetto cristiano di uomo come spirito incarnato, non solo per gli opportuni cambiamenti che il cristianesimo comportò sulla tradizione filosofica greca: la sussistenza in un una natura razionale non traduce la semplice razionalità intellettiva, ma rimanda, proprio per la natura spirituale dell’anima ad una idea personalistica assolutamente sconosciuta al mondo greco, giacché questa stessa idea personalistica deriva dalla teologia trinitaria, e il suo più pregnante richiamo essenziale è all’essenza relazionale di Dio stesso. Questo comporta che l’uomo non coincide semplicemente con la sua anima nel senso socratico del termine e tanto meno che la morte sia il deperimento del corpo contro l’immortalità dell’anima: se per Cullmann quest’ultimo concetto coincide con uno dei più gravi fraintendimenti sul messaggio cristiano e se tutta la tradizione protestante, in chiaro rifiuto del dualismo socratico-platonico, contrappone – non senza contraddizioni di difficile soluzione – la fede cristiana nella resurrezione (quindi morte dell’uomo in anima e corpo), contro l’idea dell’immortalità dell’anima, la tradizione cattolica, rifiutando un improbabile concetto di «sonno dell’anima», crede nella dolorosa separazione dell’anima dal corpo – definita da Tommaso d’Aquino «contro natura» – nella presenza in cielo dell’anima del defunto che non ha bisogno di purificazione (Bolla dogmatica Benedictus Deus, 1336, Papa Benedetto XII) e nella resurrezione della carne (fatto che si addice da sempre per Maria, data la sua Assunzione in cielo in anima e corpo) con il giudizio universale[16]. Questo comporta che l’uomo «consta di anima e corpo» (come spiega sant’Agostino). Non solo: è l’immagine trinitaria di Dio, in quanto essere, intelletto, amore, e partecipa di una relazionalità esistenziale con il prossimo e con Dio stesso. La trascendenza che l’uomo conosce non conosce solo il piano gnoseologico dell’astrazione, o quello dell’autocoscienza, ma si compie nell’apertura all’altro e nell’amore verso Dio e il prossimo. La tensione del cristiano è una tensione ad extra: il suo stesso compimento non è dato dall’io e nell’io – come crederà anche l’idealismo di Ficthe – ma dal tu.  La tensione socratica, in questo simile a quella stoica e orientale è ad intra. L’uomo socratico è chiuso in se stesso, l’anima è monolitica non solo nella differenza con la concezione platonica della biga alata, ma proprio perché è in se stessa chiusa: l’azione morale è esaminata unicamente dalla prospettiva del miglioramento di sé. Certamente esiste una differenza tra una morale del piacere o del potere, rispetto a quella del bene per la propria anima, ma quello che mi preme mettere in evidenza è questo partire e tornare in sé. Socrate non passa nulla all’altro, al proprio accusatore, resta chiuso in sé, nella propria idea. Per principio preferisce non impietosire i giudici, ma affrontare tutto secondo l’umana ragione. Nella figura del saggio filosofo viene immortalata la coerenza perfetta di una ragione, che posta di fronte al proprio tribunale risulta vincente.

 

 

 

[1] S. Palumbieri, L’uomo, questa meraviglia, Antropologia filosofica I, Urbaniana University Press, Roma 2003, p. 74.

 

[2] Ibidem, pp. 74-75.

 

[3] M. Vegetti, L’etica degli antichi, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1998, pp. 54-55.

 

[4] Ibidem, p. 91.

 

[5] K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, op. cit., p. 39.

 

[6] Ibidem, p. 39.

 

[7] H. Maier, Socrate, trad. it. G. Sanna, La nuova Italia, vol.II, Firenze 1978, p.185.

 

[8] Cfr. M. Ricci, Socrate padre del nichilismo, L. U. Japadre Editore, L’Aquila, 1971.

 

[9] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it. V. Degli Alberti e A. Solmi Marieti, Einaudi, Torino 1963, pp. 267-268.

 

[10] G. Figal, Socrate, trad.it. Carlo Gentili, Società editrice il Mulino, Bologna, 2000, p.112.

 

[11] A. Bellingreri, La metafisica tragica di Schopenhauer, FrancoAngeli, Milano 1992, p. 118.

 

[12] B. Negroni, Essere e nulla nell’opera di Schopenhauer, in G. Penzo, a cura di, Schopenhauer e il sacro, Edizioni Dehoniane, Bologna 1987, p. 140.

 

[13] G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975, pp. 20-21.

 

[14] W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, vol. II, trad. it. A. Setti, La Nuova Italia, Firenze 1954, p. 63.

 

[15] F. Sarri, Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. 11.

 

[16] Cfr. J. Ratzinger - Benedetto XVI, Escatologia, op. cit., pp. 110-144.

 

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