
La teologia del corpo e la cultura della vita
pubblicato in P. Barrajon (ed.), La Teologia del corpo di Giovanni Paolo II, If Press, Morolo, 2012, pp.247-256.
L'emergenza corpo
Il corpo è cifra di cultura e genera cultura. “Dimmi come consideri il corpo e ti dirò chi sei”, potremmo dire parafrasando un vecchio slogan pubblicitario. Dal modo con cui una società valuta il corpo si intravede la percezione che essa ha di sé e il valore che attribuisce alla persona umana[1]. Ma del resto, la consapevolezza della nostra condizione corporea è il punto di partenza di ogni autentico sviluppo. Quando qualcuno vuole trasformare se stesso deve cominciare dal proprio corpo. Allo stesso tempo, un rapporto negativo con la propria corporeità equivale ad un rapporto negativo, per non dire distruttivo, con se stessi e con gli altri.
Ci si può chiedere, a riguardo, se tanti fenomeni di distruzione come la tossicodipendenza, il suicidio, le violenze sessuali (..), ecc. non dipendano in ultima analisi – seppur in diverso modo e misura – da una situazione di disarmonia “soma-psyche” (..).
Chi non rispetta il proprio essere-in-un-corpo e la sua propria unità spirituale-corporea difficilmente sarà in grado di rispettare la condizione corporea degli altri (..)[2].
Parlare di corporeità non è mai, infatti, parlare di individualità, in quanto è proprio la condizione corporea a manifestare un aspetto fondamentale della persona umana: il suo essere come esse ad, un essere costitutivamente relazionale. Il corpo è il campo espressivo dell'io, è ciò che ci permette di manifestarci agli altri ed è, quindi, il luogo del riconoscimento.
L’essere umano, scrive Edith Stein[3], sperimenta l’esistenza e l’umanità negli altri, ma anche in se stesso. In tutto ciò che l’essere umano sperimenta fa anche esperienza di sé. L’esperienza che egli fa di se stesso è totalmente diversa da quella che fa di tutto il resto. La percezione esteriore del proprio corpo non è il ponte per l’esperienza del proprio io. Il corpo viene sicuramente percepito esteriormente, ma questa non è l’esperienza fondamentale e si fonde con la percezione dell’interiorità, con la quale ogni uomo sente il corpo e sé in esso. Dunque il corpo umano differisce dal corpo non-umano, in quanto esteriorizzazione di qualcosa di essenzialmente interiore. Nel corpo umano, l’aspetto esteriore non è un termine dove finisce la nostra percezione, ma ci spinge oltre.
Eppure, non è possibile non accorgersi che la società attuale si trova di fronte ad una eclatante contraddizione. Di primo acchito, tutto farebbe pensare alla cultura occidentale come ad una cultura “somatocentrica”. Facendo un passo indietro, si pensi, ad esempio, alla contestazione giovanile del '68 che denunciava il “corpo-oggetto”, finendo, poi, col ridurre il corpo ad un vero e proprio ingranaggio della società consumistica[4]. Per non parlare della presunta “riappropriazione del corpo” della donna per opera del femminismo, che, scivolando in bieche strumentalizzazione, ha perso di vista il fatto che la valorizzazione della donna, della sua corporeità, ma anche del suo ruolo intellettuale e sociale non può non passare attraverso una riappropriazione del corpo anche da parte dell'uomo e della società, dimenticando così la reciprocità dei due sessi. Infine, non possiamo non menzionare un vero e proprio “culto del corpo” che passa attraverso il boom di centri benessere, la varietà di discipline orientali che promettono un corpo rilassato, la grande offerta di diete di ogni tipo affiancate da aitanti personal trainer.
Uno sguardo più attento ci mostra, però, che la ricerca spasmodica della cura del proprio corpo è accompagnata da un prepotente rifiuto di esso, specie se malato o anche semplicemente “acciaccato” e che la visione di noi stessi come persone sia attraversata da una sottile, ma inequivocabile, visione dualistica che ci strappa da quel Lieb[5], come corpo vissuto. Vediamo costantemente un corpo strumentalizzato dai media per veicolare messaggi erotici, violenti o diseducativi. Siamo bombardati di immagini che meccanicizzano il corpo contribuendo a farci pensare l'uomo nei termini di una specie di "macchina" vivente in cui non c'è niente di "misterioso" e il cui valore dipende direttamente dalle sue finalità.
Ci chiediamo: davvero ci siamo riappropriati del corpo? O forse – come si chiede Spinsanti[6] – questa quasi ossessiva ricerca del corpo non è altro che un fenomeno illusorio paragonabile a quello dell'“arto fantasma”, per cui mai la percezione di un arto è così forte come dopo la sua amputazione?
Il punto è che si cerca di recuperare il valore del corpo attuando un'opposizione con quanto nella persona non è corporeo, in termini di spiritualità, affettività, libertà, ecc. Riteniamo, invece, che non sia possibile un'autentica riappropriazione del corpo se non all'interno di un'altrettanto autentica riappropriazione di se stessi come persone. Una visione dualistica, schizofrenica della persona umana, che valorizzi solo una dimensione – in questo caso quella corporea – finisce per non rispettarla.
Corporeità e cultura della vita
Questa premessa era fondamentale per comprendere «l'inscindibile legame che intercorre tra la persona, la sua vita e la sua corporeità»[7] a costruzione di una vera e propria “cultura della vita”.
Dobbiamo partire da una teologia del corpo per arrivare a una pedagogia del corpo. Un'educazione, anzi un'autoeducazione dell’uomo. Ciò acquista una particolare attualità per l’uomo contemporaneo, la cui scienza nel campo della biofisiologia e della biomedicina è molto progredita. Tuttavia questa scienza tratta l’uomo sotto un determinato “aspetto” e quindi è piuttosto parziale, anziché globale.
Conosciamo bene le funzioni del corpo come organismo (..), ma tale scienza, di per sé, non sviluppa ancora la coscienza del corpo come segno della persona, come manifestazione dello spirito. Tutto lo sviluppo della scienza contemporanea, riguardante il corpo come organismo, ha piuttosto il carattere della conoscenza biologica, perché è basato sulla disgiunzione, nell’uomo, di ciò che in lui è corporeo da ciò che è spirituale. Servendosi di una conoscenza così unilaterale delle funzioni del corpo come organismo, non è difficile giungere a trattare il corpo, in modo più o meno sistematico, come oggetto di manipolazioni; in tal caso l’uomo cessa, per così dire, di identificarsi soggettivamente col proprio corpo, perché privato del significato e della dignità derivanti dal fatto che questo corpo è proprio della persona. Ci troviamo qui al limite di problemi, che spesso esigono soluzioni fondamentali, le quali sono impossibili senza una visione integrale dell’uomo[8].
Separare, per così dire, il corpo dalla persona significa separare l’essere soggettivo dalla realtà di fatto, non ritenendo sufficiente identificare la persona con la sua evidenza fisica di essere appartenente al genere umano. L’esito di questa dicotomia è la riduzione del corpo ad oggetto senza soggettività e valore intrinseco; al corpo oggettivizzato è, poi, riconosciuta la possibilità di “sostenere” o meno la soggettività personale, ossia la manifestazione delle qualità che caratterizzano l’essere persona. Il problema è che
se la persona non è il suo corpo, allora la distruzione della vita del corpo non è di per sé un attacco al bene intrinseco della persona umana. Così la vita del nascituro, del neonato, degli individui in “stato vegetativo persistente” e di molti altri, non sono più inviolabili. Anzi, il corpo, in questa visione, può diventare una prigione o un peso intollerabile sulla persona e, di fatto, proteggere il “diritto a morire”, procurando l’eutanasia o assistendo il suicidio, equivarrebbe a fare un favore alla persona[9].
È come dire che sussiste la differenza tra un corpo che è il corpo di qualcuno e un corpo che può diventare il corpo di qualcuno. Dunque, ci sarebbe differenza tra la potenzialità di diventare una persona e le potenzialità di una persona. Riconoscere gli umani come entità spazio-temporalmente estese significherebbe, allora, vedere nella loro totale incarnazione loro stessi, solo finché tale incarnazione mantiene le capacità che costituiscono il substrato fisico degli agenti morali[10].
Comprendiamo, quindi, che nel dibattito attuale sull’identità dell’uomo svolge una funzione primaria il chiedersi: l’uomo è riconducibile alla sua corporeità oppure la trascende? Tale questione mette in luce come il binomio corpo umano-persona umana ponga la corporeità ora come ostacolo, dal mito platonico all’autorealizzazione umana, ora come unica concreta condizione a cui ricondurre ogni manifestazione dell’umano. La filosofia contemporanea, dopo la lunga stagione del dualismo cartesiano, ha indotto a pensare un’anima spirituale, o meglio, ad un pensiero (la res cogitans) presente in un corpo materiale (la res extensa), posizione diametralmente opposta a quella aristotelico-tomista e cristiana che nega tale dualismo. Se, infatti, secondo questa posizione, l’anima è forma del corpo, essa è per sua natura unita al corpo e, per sua natura, non può, addirittura, stare senza il corpo di cui è atto, forma e determinazione. Se teniamo ferma questa impostazione, mentre è possibile distinguere il “corpo-oggetto” e il “corpo-vissuto”, tale distinzione non vuole essere una separazione dei due termini. Pur potendo, infatti, distinguere l’io dal suo corpo, tuttavia ciò non deve far pensare che si possa separare l’io dal suo corpo. Nessuno può incontrare, infatti, un altro senza incontrare anche il suo corpo. Persino, infatti, per interpretare gli atteggiamenti altrui come frutto dell’autocoscienza occorre interpretare il comportamento altrui, cioè entrare in merito della corporeità dell’altro. Ed è il rimando alla corporeità che dà spessore all’autocoscienza umana, per il semplice fatto che senza il riferimento al corpo altrui non c’è possibilità di alcuna relazione con l’altro: l’altro si presenta a me davanti a tutto il suo corpo, anche quando non è soltanto un corpo.
Del resto, l’io come corpo è proprio ciò che è violabile dalla volontà altrui: per questo nessuna tutela dell’io, della sua dignità e integrità può avvenire se non si tutela e si rispetta anche la propria e l’altrui corporeità. In fondo, qualsiasi prassi medica che operi sul corpo umano si giustifica in quanto tende proprio a salvaguardare l’esistenza e la salute di quell’io che, pur non essendo solo corpo, soffre con il suo corpo e per il suo corpo. Non sono mai le astratte qualità personali ad avere bisogno di interventi e di cure, ma le persone corporee.
Ora, non è necessaria una raffinata antropologia per poter affermare che il riferimento alla continuità corporea è ciò che empiricamente ci permette di riconoscere qualcuno e di porre il rispetto di quell’esistenza come condizione fondamentale per ogni riflessione morale e per ogni diritto[11]. E questo perché la corporeità dell’uomo, a differenza di quanto affermerebbe la tesi dualista, non è un’“appendice” che in qualche modo si somma alla sua essenza umana. Fin dal concepimento, quando inizia l’essere umano, l’esistenza umana e la sua incarnazione sono legate l’una all’altra. Questo modo specifico di esistere storicamente diversifica l’uomo dagli altri esseri. Lo spirito, in quanto principio costitutivo dell’essere umano, è originariamente incarnato, e in questo modo dà origine alla corporeità umana. L’uomo, quindi, grazie alla sua spiritualità e all’incarnazione, realizza la storia che semmai l’animale potrà attuare. L’uomo è, per essenza, trasformatore della natura e plasmatore della storia[12].
Ora, sottolinea Pessina, «che cosa mi permette di dire che corpi umani differenti da me, corpi di uomini malati deformi, corpi percepibili al microscopio, come nel caso dello stadio embrionale, corpi inerti e privi di palesi segni di coscienza sono persone come me?»[13]. Prendere sul serio il semplice dato empirico della corporeità significa comprendere che la disarmante semplicità dell’argomento, con cui si afferma che l’uomo è sempre e comunque colui che nasce da altri uomini, è il punto di partenza e la condizione per procedere a qualsiasi ulteriore definizione di uomo e, quindi, a qualsiasi tematica bioetica.
Alla luce di queste considerazioni, la definizione di persona non è altro, allora, che la determinazione concettuale dell’essere umano realmente esistente, ovvero è la proposizione volta ad esprimere, verbalmente e linguisticamente, e a tematizzare, teoreticamente ed astrattamente, il significato del termine, elaborato a partire dalla considerazione della realtà[14]. In altre parole, la definizione di persona è lo sforzo speculativo di precisazione e di esplicitazione dei caratteri generali e delle proprietà specifiche dell’essere umano esistente, che si presenta a noi, hic et nunc, mediante il suo corpo.
Vediamo l’essere umano non solo come essere umano, non solo per quello che ha in comune con gli altri esseri umani e neanche solo per la posizione che occupa nell’ordine sociale. Con maggiore o minor forza, già al primo incontro ci parla di ciò che egli stesso è come persona individuale e di come è, della sua essenza, del suo carattere. Ci parla con i tratti del suo volto, con il suo sguardo e le espressioni del viso, con il timbro della sua voce e mentre ci parla ci tocca interiormente. Gli esseri umani sono persone, che hanno una peculiarità individuale e la concezione che hanno l’uno dell’altro non è solo una questione di ragione, piuttosto è una relazione interiore[15].
Il corpo non è semplicemente qualcosa che l’uomo possiede; egli esiste nel suo corpo, come persona totale. Il corpo è il luogo espressivo e attuativo dell’essere umano ed è in esso che prendono forma e si concretizzano le sue potenzialità. Esso ha un’essenziale dimensione epistemologica, in quanto è in esso che l’uomo conosce e si conosce. Non esiste autoconoscenza ed eteroconoscenza umana che non si qualifichi in rapporto alla somaticità. La corporeità è il campo espressivo e attuativo dell’io personale. Completamente il corpo partecipa alla realizzazione totale della persona, la rivela e la compie ed è il primo ambito entro il quale l’essere umano sperimenta e compie la sua esistenza[16]. La struttura del suo corpo permette all’uomo di essere autore di un’attività prettamente umana, in cui il corpo esprime la persona. Il corpo è, perciò, in tutta la sua materialità, in certo qual modo penetrabile e trasparente, tanto da rendere evidente il suo essere uomo e la sua singolarità.
La cultura della vita che si costruisce sulla valorizzazione della corporeità
La “rivelazione del corpo” ci aiuta in qualche modo a scoprire la straordinarietà di ciò che è ordinario. L’umana esperienza del corpo, così come la scopriamo nei testi biblici, si trova certo alla soglia di tutta l’esperienza “storica” successiva. Essa, tuttavia, sembra anche poggiare su di una profondità ontologica tale che l’uomo non la percepisce nella propria vita quotidiana, anche se nel contempo, e in certo modo, la presuppone e la postula come parte del processo di formazione della propria immagine[17].
Nell'odierno contesto sociale, segnato da una drammatica lotta tra la “cultura della vita” e la “cultura della morte”, occorre far maturare un forte senso critico, capace di discernere i veri valori e le autentiche esigenze[18]. I dati antropologici sono evocati in riferimento alla persona umana, che si manifesta e si esprime attraverso il proprio corpo. Perciò la legge morale naturale esprime e prescrive le finalità, i diritti e i doveri che si fondano sulla natura corporale e spirituale della persona umana. Ne deriva che ogni intervento sul corpo, coinvolgendo la persona stessa, comporta un significato morale e deve concorrere al bene integrale della vita umana, nel rispetto della sua dignità.
Giovanni Reale si chiede «come mai si è giunti a una dimenticanza della figura dell'uomo come persona? Si è giunti a tale dimenticanza per lo stesso motivo per cui sono caduti in oblio i grandi valori e si è diventati vittime del nichilismo»[19]. Ma del resto, l'annuncio di Nietzsche della "morte di Dio" è sempre stato correlato alla promessa della nascita dell'"oltre-uomo", di colui che avrebbe potuto ritrovare in sé la risposta all'ansia di infinito che non può essere cancellata. Una cultura della vita, allora, ha oggi il compito di far scoprire il senso della finitezza umana, di ridirne la verità. Perché è dentro la finitezza che si manifesta la verità della vita e cioè che Dio partecipa della storia dell'uomo sia perché lo costituisce qui ed ora nella sua libertà, sia perché nell'Incarnazione si annuncia la "chiave dell'interpretazione dell'esistenza"[20].
Una ricerca sistematica nel testo dell'Evangelium Vitae (EV) della parola "verità" e dei termini imparentati ci mostra in modo palese che il Santo Padre pone la verità come un elemento essenziale della teoria e la pratica della cultura della vita. Ci parla del valore fondamentale della verità nella diffusione del Vangelo della vita, perché è soltanto attraverso un profondo compromesso con la verità che l'uomo riesce a scoprire e a diffondere il rispetto per l'umanità di ogni essere umano. Dice il Papa, tra altre cose, che l'apertura sincera alla verità è una condizione necessaria affinché all'uomo venga rivelato il valore sacro della vita umana[EV 2]; che tutto rapporto sociale autentico deve basarsi sulla verità[EV 57]; che ora, più che mai, è necessario chiamare le cose per il suo nome, senza cedere alla tentazione dell'autoinganno[EV 58]; che nella storia sono stati commessi crimini in nome della verità[EV 70]; che la cultura nuova della vita è il frutto della cultura della verità e dell'amore[EV 77]; che il lavoro dei costruttori della cultura della vita deve esprimere la verità compiuta sull'uomo e sulla vita[EV 95]; che nei mezzi di comunicazione sociale deve essere rispettata una scrupolosa fedeltà alla verità[EV 98][21].
Del resto, la comprensione della totalità dell'uomo indica anche l'improrogabilità della ricerca della «verità dell'ethos dell'uomo in quanto uomo»[22]. Per questo, Veritatis Splendor scrive, in merito al posto occupato dal corpo umano nelle questioni della legge naturale:
La persona, mediante la luce della ragione e il sostegno della virtù, scopre nel suo corpo i segni anticipatori, l'espressione e la promessa del dono di sé, in conformità con il sapiente disegno del Creatore. È alla luce della dignità della persona umana — da affermarsi per se stessa — che la ragione coglie il valore morale specifico di alcuni beni, cui la persona è naturalmente inclinata. E dal momento che la persona umana non è riducibile ad una libertà che si autoprogetta, ma comporta una struttura spirituale e corporea determinata, l'esigenza morale originaria di amare e rispettare la persona come un fine e mai come un semplice mezzo, implica anche, intrinsecamente, il rispetto di alcuni beni fondamentali, senza il quale si cade nel relativismo e nell'arbitrio[23].
Dunque, si chiude il cerchio: corpo, verità, cultura della vita. L'antropologia enunciata permette di cogliere la corporeità in tutta la sua spettacolarità. Di fronte al nostro corpo non si finisce mai di stupirsi. «Mi hai fatto come un prodigio» recita il salmista (Sal 139, 13). Per entrare in questa contemplazione, si deve risvegliare in noi il senso di meraviglia e di ammirazione per quello che siamo nella nostra concreta corporeità.
Scrive Thomas:
Se vuoi vivere di sorpresa in sorpresa, eccola qua la fonte di tutte quante. Una cellula si differenzia per produrre il massiccio apparato di miliardi di cellule, che ci è stato dato per pensare, immaginare e, come in questo caso, per rimanere stupiti davanti a una così formidabile sorpresa. Tutta l'informazione necessaria per imparare a leggere e a scrivere, per suonare il pianoforte, per discutere di fronte ad un Comitato del Congresso, per attraversare la strada in mezzo al traffico, o per eseguire quell'atto meravigliosamente umano come è stirare un braccio e appoggiarsi ad un albero: tutto questo è contenuto in quella prima cellula. In lei c'è tutta la grammatica, tutta la sintassi, tutta l'aritmetica, tutta la musica [...]. nessuno ha la più minima idea di come succede questo, ma la verità è che niente in questo mondo sembra più interessante. Se prima di morire qualcuno dovesse trovare la spiegazione di questo fenomeno, io farei una pazzia: prenderei in affitto uno di quegli aerei che possono scrivere segnali sul cielo, anzi, una squadra completa di quegli aerei, e li spedirei per i cieli del mondo a scrivere segni di ammirazione, uno dopo l'altro, fino a non finire tutti i miei soldi"[24].
[1]Cfr. C.Rocchetta, Per una teologia della corporeità, Edizioni Camilliane, Torino, 1993, p.10.
[2] Ibidem.
[3] Cfr. E.Stein, La struttura della persona umana, Città Nuova, Roma, 2000, pp.69-70.
[4] Cfr. C.Rocchetta, op.cit., p.70.
[5]La fenomenologia husserliana ha introdotto nel pensiero contemporaneo la distinzione tra “corpo-oggetto” (Körper) e “corpo-vissuto” (Lieb). Il primo termine corrisponde al corpo risultante da una considerazione puramente esterna, il secondo al corpo reale in quanto sperimentato dal soggetto. Questa distinzione permette di riflettere sul fatto che, allora, il corpo umano è lontano dall’essere una “cosa”, bensì appartiene all’esperienza del nostro io. L’antropologia filosofica attuale riprende questa distinzione coniando due specifiche accezioni: corpo e corporeità. “Corpo” richiama la scissione classica dell’uomo in corpo e anima, indicando, nel linguaggio comune, una ‘parte’ della persona umana, ovvero la componente corporea in quanto distinta da quella psichica. “Corporeità” indica, invece, l’intera soggettività umana sotto l’aspetto della sua condizione corporea in quanto costitutiva della sua identità personale. È grazie all’esperienza del Leib che ci rendiamo conto che il nostro corpo siamo noi stessi, piuttosto che trovarci davanti ad esso come davanti a qualcosa da possedere, da vestire e da sfruttare. Su questo si vedano: D.Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano, 1969, p.133 e P.Prini, Il corpo che siamo, SEI, Torino, 1991, p.67.
[6]Cfr. S.Spinsanti, Il corpo nella cultura contemporanea, Queriniana, Brescia, 1983, pp.52-66.
[7] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Evangelium vitae”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1995, n.81.
[8]Giovanni Paolo II, Pedagogia del corpo, ordine morale, manifestazioni affettive, Udienza Generale, 8/4/1981, in “Insegnamenti di Giovanni Paolo II”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, vol. IV/1 (1981) pp.903-911.
[9] W.E.May, Bioetica e Teologia: quale legame?, in Atti del Congresso Internazionale della FIBIP “Quale personalismo?”, Roma, Giugno 2003, in “Medicina e Morale”, 2004/2, p.285.
[10]Cfr. Ibidem, pp.173-175.
[11]Cfr. A.Pessina, Bioetica, L’uomo sperimentale, Mondadori, Milano, 1999, pp.90-93.
[12]Cfr. R.Lucas Lucas, Statuto antropologico dell’embrione umano, in AA.VV., Identità e statuto dell’embrione umano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1998, p.168.
[13] A.Pessina, op.cit.,p.92.
[14] L.Palazzani, Il concetto di persona tra bioetica e diritto, Giappichelli, Torino, 1996, p.224.
[15] Cfr. E.Stein, op.cit., pp.68-69.
[16] C.Rocchetta, op.cit.,p.118.
[17]Giovanni Paolo II, I significati delle primordiali esperienze dell’uomo, Udienza generale, in “Insegnamenti di Giovanni Paolo II”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, Vol. II/2 (1979) 1378-1385.
[18] Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica “Evangelium Vitae”, op.cit., n.95.
[19]Cfr. G.Reale-T.Styczeń (edd.), Karol Wojtyla. Metafisica della persona, Bompiani, Milano, 2005.
[20] R.Guardini, Sul limite della vita. Lettere teologiche a un amico, Vita e Pensiero, Milano, 1979, p. 42.
[21]Cfr. G.Herranz, La cultura della vita: un impegno affermativo, in Atti della VII Assemblea della PAV, in http://www.academiavita.org/index.php?option=com_content&view=article&id=196%3Ag-herranz-la-cultura-della-vita-un-impegno-affermativo&catid=52%3Aatti-della-vii-assemblea-della-pav-2001&Itemid=66&lang=it [coll.eff. il 9/10/2011].
[22] G.Russo, L'uomo e la ricerca di senso in bioetica, in G.Russo (ed.) Bioetica fondamentale e generale, SEI, Torino, 1995, p.590.
[23] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Veritatis Splendor”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1993, n.48.
[24]L.Thomas, The Medusa and the Snail. More notes of a Biology Watcher, Bantam Books, New York, 1980, pp.130-131.
Sessualità umana, pensata e vissuta
Per comprendere appieno il posto che la sessualità occupa all’interno della persona umana come sua dimensione costitutiva, non si può prescindere da una riflessione sulla corporeità umana.
Riflettere su corpo non è mai perdersi in “pure speculazioni”. Riflettere sul corpo è fondamentale sul piano personale, sul piano sociale, sul piano della fede e anche sul piano etico.
Forse dovremmo chiederci più spesso: «che valore ha per me il mio corpo?». Il nostro corpo, infatti, racchiude una multiforme ricchezza di significati. Potremmo, ad esempio, pensare al corpo come a un microcosmo, che racchiude in sé l'intera vicenda evolutiva del creato. Anzi, potremmo dire che la perfezione della corporeità umana è un riflesso della straordinaria perfezione dell'universo. Tutto ciò che è creato da Dio è come un riflesso della sua bellezza e della sua bontà. Carlo Rocchetta, a questo proposito, riesce a parafrasare il testo della genesi in questo modo[1]:
“Dio contemplò ciò che aveva creato e constatò che era una meraviglia, colma di armonia e di amabilità. Dio guardò con compiacimento particolare l'essere umano, uomo e donna, uscito dalle sue mani e rilevò che era la meraviglia delle meraviglie, traboccante di perfezione, di bontà e di bellezza”.
La creatura umana è un tutto, spirituale e corporeo, dove lo spirituale e il corporeo sono in una interazione reciproca. Il corpo è manifestazione e attualizzazione dell'io spirituale e il nostro “essere nel mondo” si realizza mediante la corporeità. Il corpo è il campo espressivo dell'io, è il linguaggio che ci mette in comunicazione con gli altri, che ci permette di conoscerci e riconoscerci, di accoglierci e donarci. Il nostro essere “spirito incarnato” ci fa capire che in noi non c'è nulla nell’uomo di puramente biologico.
Disattendere questa unità di corpo e spirito condurrebbe a due estreme conseguenze: il materialismo e lo spiritualismo. In entrambi i casi ad essere distrutta è l'unità e di conseguenza la verità integrale dell'essere umano fino a un vero e proprio riduzionismo della persona.
La consapevolezza della nostra condizione corporea è il punto di partenza per un autentico sviluppo personale. Quando qualcuno vuole “trasformare” se stesso deve cominciare con la propria corporeità. Un rapporto negativo (e a volte persino distruttivo) con il proprio corpo equivale a un rapporto negativo con sé e con gli altri. Si pensi ai cosiddetti “comportamenti a rischio”, così presenti nella vita di molti giovani (tossicodipendenza, disturbi alimentari, sport pericolosi, ecc.)
Il corpo riveste un ruolo fondamentale anche nel nostro rapporto con Dio. La rappresentazione che si ha della propria corporeità incide più di quanto si pensi sulla rappresentazione che ci si fa di Dio e di se stessi in rapporto a Lui. Il disprezzo del copro conduce, infatti, all'accentuazione di una visione del divino in termini di lontananza e di paura e anche la morale finisce col ridursi in un' “etica del timore”, piuttosto che in un'autentica risposta d'amore[2].
L’analisi filologica[3], infatti, dei concetti antropologici più importanti, e in particolare di quelli coniati per designare la parola “corpo”, ci permette di vedere che nel mondo ebraico le funzioni spirituali e quelle corporali non sono separate, a tal punto che non è possibile circoscrivere i fenomeni spirituali solo nel contesto dell’anima e quelli fisici solo nell’ambito del corpo. L’essere umano è considerato come un’unità. La dimensione spirituale non viene mai separata dalla dimensione corporea: fenomeni interiori e fenomeni corporali appartengono all’unica persona e la manifestano nella sua totalità, condizionandosi reciprocamente. L’unità della sua esistenza è “complessa”, costituita cioè dalla dimensione spirituale e da quella corporea. Dunque, il corpo era considerato nel contesto culturale ebraico quasi come un sacramento; i rapporti basati sul corpo, particolarmente quelli sessuali, simboleggiavano la relazione con Dio e presupponevano il retto ordine della creazione.
Nella concezione biblica non si trovano, infatti, né una visione spiritualistica, che considera il corpo con un’accezione negativa, come fonte di male, né una materialistica, che riporta la persona umana unicamente al suo corpo. Da qualunque parte lo si guardi, il corpo rimane la manifestazione più espressiva del mistero fascinoso dell’essere umano, creato ad immagine e somiglianza di Dio. Ogni essere personale è in se stesso un miracolo di esistenza creaturale che proclama in atto la grandezza del Creatore.
Il cristianesimo ha radicalizzato nei secoli questa prospettiva mediante la dottrina dell’incarnazione – la più nota è l’espressione “caro cardo salutis” di Tertulliano. La riflessione sull’esperienza spirituale non può avvallare, del resto, nessuna forma di disincarnazionismo e di ascesi impostata sul disprezzo o sull’indifferenza del corpo e «non è lecito all’uomo disprezzare la vita corporale; egli, anzi, è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo» (Gaudium et Spes, 14).
Dunque, l’uomo, in quanto unità e totalità, nella sua esperienza dell’Assoluto non percepisce se stesso solamente in quanto spirito, ma anche in quanto corpo: «unità di anima e di corpo, l’uomo sintetizza in sé. Per la sua stessa condizione corporale, gli elementi del mondo materiale così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono nome per lodare in libertà il Creatore».
Metz sottolinea[4], infatti, che tutta l’economia del Mysterion ha uno spessore corporeo in linea con la struttura dell’essere umano rispettato nella sua natura più profonda e conclude che, alla luce della teologia, il corpo non è luogo di eventi senza importanza. L’essere corporeo non è un’anticamera, né una sala d’aspetto in cui si aggira un’anima annoiata e delusa, in attesa che nella morte le si apra la porta del “parlatoio” di Dio. Il corpo è il sacramento del grande ‘sì’ della terra al cielo, dell’amen dell’uomo al cospetto di Dio. Per questo, infatti, nessuno dà tanto peso al corpo e alla terra quanto il cristiano[5].
Il corpo non è semplicemente qualcosa che l’uomo possiede; egli esiste nel suo corpo, come persona totale. Il corpo è il luogo espressivo e attuativo dell’essere umano ed è in esso che prendono forma e si concretizzano le sue potenzialità. Completamente il corpo partecipa alla realizzazione totale della persona, la rivela e la compie ed è il primo ambito entro il quale l’essere umano sperimenta e compie la sua esistenza. La struttura del suo corpo permette all’uomo di essere autore di un’attività prettamente umana.
Volendo, ora, calare questa introduzione alla nostra riflessione sulla sessualità, dobbiamo tenere conto di un’altra caratteristica fondamentale del corpo umano: il carattere sponsale.
La persona umana, nella sua costituzione psico-somatica, è, infatti, un essere sessuato e questa caratteristica determina il suo essere. La dualità sessuale è il modo specifico dell’uomo di vivere nel mondo e di rapportarsi agli altri. Nella coscienza della propria corporeità, l’uomo rivela alla donna la sua femminilità e la donna rivela la mascolinità all’uomo. Il corpo si rende così rivelatore ineludibile di un’identità, mediatore dell’identità psichica per portarla a compimento attraverso la scoperta della diversità[6]. In tal senso, non esistono molteplici sessualità. Non esistono tante forme di diversità strutturalmente inscritte nella natura umana. Sul piano epistemologico, pertanto, non è possibile parlare delle diversità sessuali, ma solo della diversità sessuale, perché la diversità sessuale è una sola ed è irriducibile: quella tra uomo e donna.
La dimensione sessuale dell’uomo, inscritta nella sua corporeità, quindi, proprio perché attraversa tutta quanta la persona, va per se stessa integrata costantemente e collocata al centro dell’uomo. In questo senso, la sessualità non solo è un dato originario che va accettato e rispettato, ma nell’uomo quel dato diventa compito.
È, infatti, proprio dalla visione antropologica della sessualità, quindi, che derivano le relative implicazioni etiche; nell’ambito di quella che viene chiamata “morale sessuale”, infatti, l’illiceità di qualcosa non deriva tanto da una norma “esterna” di tipo religioso, quanto dalla natura intrinseca della sessualità umana; perciò in questo campo si tratta di comportamenti valutati dalla legge morale “naturale”, che possono poi essere valutati da una legge positiva “religiosa”[7]. I criteri etici (..) scaturiscono dall’ambito proprio della natura umana.
La sessualità è il modo di essere costitutivo dell’umano; non un esercizio temporale di determinate funzioni, ma un modo permanente di essere, che si configura, pertanto, necessariamente o come mascolinità o come femminilità.
Negli animali la sessualità si configura come una serie di fenomeni biologici e sensoriali, attraverso i quali è garantita la continuità della specie. In essi si tratta di una “funzione”. Nell’uomo la sessualità ha sì questa stessa funzione, ma in lui contiene un “significato”, che non si riduce alla mera funzionalità biologica[8].
Ed ecco perché possiamo dire che non c’è nulla di “sporco” nella sessualità o nella genitalità. La volgarità deriva dalla visione materialistica della persona e quindi del corpo e quindi del sesso e dalle intuibili conseguenze.
La dualità uomo-donna è una uni-dualità-complementarietà. Questa si manifesta chiaramente nella coniugalità, ovvero nella unione fisica, psichica e spirituale con il sesso opposto. Questa unione coinvolge la totalità della persona e non soltanto una parte. Come la persona è un “io” aperto al “tu” ed è quindi un essere in relazione, anche la sessualità possiede una essenziale dimensione relazionale. È il segno e il luogo dell’apertura, dell’incontro, del dialogo, della comunicazione e dell’unità delle persone tra di loro. L’ “io” si costituisce soltanto in relazione al “tu” e la sessualità è la realtà che manifesta questa comunione del “noi”. L’essenza della sessualità umana risiede proprio in questa relazione di un “io” verso un “tu”, che trova il suo fondamento nella costituzione relazionale dell’io personale.
La metafisica dell’actus essendi, mostra come l’essere non sia chiuso in se stesso, ma aperto all’altro, per cui la perfetta identità passa attraverso l’alterità e si realizza nella comunione di amore. Come scrive Von Balthasar:
Soltanto nell’amore verso gli altri, soltanto nel superamento della sfera dell’io e nel passaggio in una sfera del tu, (..) l’uomo si realizza pienamente, anzi diventa se stesso soltanto nell’incontro; in quell’evento, la verità si appalesa e si manifesta spontaneamente, liberamente, gratuitamente la profondità dell’essere dell’uomo[9].
L’uomo si coglie come un ego-ad, un ego-cum. L’altro, simmetrico all’io, si autoimpone, senza dipendere da quest’ultimo per la sua esistenza. L’io che si avvicina all’altro in termini di gratuità permanente resta soggetto, proprio perché compie un’operazione di potenziamento dell’essere nell’altro. E anche il tu resta soggetto, in quanto e nella misura in cui l’io si avvicina al tu con immenso rispetto sia formale sia sostanziale. E così, non lo tratta con lo sguardo strumentalizzante, ma gli lascia intatta, potenziandone l’essere, la sua soggettività al cui servizio si pone[10].
A livello personale spirituale, la sessualità non è, quindi, soltanto l’energia finalizzata alla funzione biologica della riproduzione, ma è un principio di configurazione dell’intera esistenza dell’uomo; infatti essa modifica e personalizza anche le attività interiori del pensiero, della volontà e della percezione del mondo circostante.
[1] C.Rocchetta, Per una teologia della corporeità, Edizioni Camilliane, Torino, p.125.
[2] Cfr. G.Miranda, Risposta d’amore. Manuale di teologia morale fondamentale, Logos press, Roma, 2001.
[3] Per un’analisi dettagliata del termine nell’antropologia biblica si rimanda a C.Rocchetta, op.cit., pp.23-40
[4] Cfr. J.B.Metz, Caro cardo salutis, Queriniana, Brescia, 1968.
[5] Cfr. Ibidem.
[6] Cfr. G.Gambino, Le unioni omosessuali. Un problema di filosofia del diritto, Giuffrè, Milano, 2007.
[7] Cfr. R.Lucas Lucas, Antropologia e problemi bioetici, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p.63.
[8] Cfr. G.Miranda, La sessualità umana: il valore i significati, in M.L. Di Pietro-E.Sgreccia (edd), Bioetica ed educazione, La Scuola, Brescia, 1997, pp.77-89.
[9] H.von Balthasar, Solo l’amore è credibile, Borla, 1977, p.46.
[10] Cfr. S.Palumbieri, L’uomo questa meraviglia, Urbaniana University Press, Città del Vaticano, 2003, p.339.