
Luci e ombre del potere biotecnologico nel tempo prenatale e perinatale.
Una rilettura bioetica della genitorialità alla luce delle nuove tecnologie
pubblicato in E.Larghero-M.Lombardi Ricci (edd.),
Venire al mondo tra opportunità e rischi, Edizioni camilliane, Torino, 2013, pp.185-204.
Come quasi tutti i genitori dell'epoca, anche i miei decisero di far nascere il prossimo figlio con quello che oggi è diventato il metodo naturale.
«Dopo la selezione restano due sani maschietti e due sanissime femminucce. Nessuno naturalmente predisposto alle più gravi malattie ereditarie. Non rimane che scegliere il candidato più confacente. (..) Dunque, avete specificato: occhi nocciola, capelli scuri e pelle chiara. Mi sono permesso di eliminare ogni affezione virtualmente pregiudizievole: calvizie preoce, miopia, prediposizone all'alcolismo e alle droghe, tendenza alla violenza, obesità».(..)
«Beh, noi pensavamo se non fosse meglio lasciare anche qualcosa al caso».
«Fate che vostro figlio parta in posizione di vantaggio. Purtroppo abbiamo già abbastanza difetti innati, no? Non caricate vostro figlio di ulteriori fardelli. Ricordate che questo bambino è la somma di voi due, del meglio di voi due però. Potreste concepirne naturalmente altri mille, mai otterrete un risultato simile».
(dal film "Gattaca")
§ 1. Il nuovo volto della procreazione
In principio era il caso, la natura, la Provvidenza. In altre parole, dal “regno della necessità” di Kant, passando per il “regno della causalità” di Darwin, siamo approdati al “regno della libertà” dei nostri giorni. Una "libertà" tale, in ambito procreativo, che oggi non intervenire sul divenire della generazione diventa un problema morale ed intervenire – vuoi interrompendo le gravidanze di feti malati, vuoi selezionando il migliore tra più feti possibili, vuoi un giorno, quando sarà possibile, migliorando alcune caratteristiche (statura, muscolatura, memoria, ecc.)– diventa un obbligo.
E questo da quando la genetica ha fatto capolino nella riproduzione. Dalla germinal choice[1] di Hermann Muller all'ingegneria genetica, la prospettiva è quella di ottenere il miglior risultato possibile. Fin dalla sua origine, infatti, lo stesso counselling genetico si è imposto nel panorama procreativo, non solo come un servizio per informare la coppia circa le possibili malattie genetiche trasmissibili ai figli, ma come “bussola” per discernere l’opportunità o meno di dare alla luce dei figli[2]. Anche l’iniziativa di Robert Graham, simile a quella di Muller, di migliorare il plasma germinale mirava a contrastare il diffondersi degli esseri umani “retrogradi”. A tal punto che è nota l'iniziativa di Graham stesso di rimediare il seme di premi Nobel e di metterlo a disposizione delle donne in cerca di un donatore.
Anche in termini positivi, l'obiettivo più o meno velato è quello che, una volta messi a conoscenza dell’intero ventaglio delle terapie genetiche, i futuri genitori potranno far riferimento ai loro valori per scegliere quali migliorie dare ai loro bambini prima della nascita. Siamo forse di fronte a una “genomania"[3]? Se con questo termine intendiamo quella mentalità che tramuta la volontà di un figlio perfetto in un’idea ragionevole e quindi condivisibile, direi proprio di sì.
E la mentalità fa presto a diventare prassi. Si pensi che nella gestione dei servizi di genetica viene persino tirato in ballo il principio egualitario di John Rawls, in quanto, nell’ambito di uno schema di giustizia come equità, tali servizi devono poter essere offerti a tutti, come modi di garantire alcuni tratti genetici, come l’assenza di patologie gravi, che consentano l’equa uguaglianza di opportunità in una società democratica. Infatti, se la dotazione genetica non è più in balia del "caso", ma entra a far parte delle "dotazioni incluse" quando si viene al mondo, un pacchetto genetico “normale” fa parte di un ventaglio di beni primari che devono essere garantiti ai cittadini.
Eppure, se sulla carta questo ragionamento non fa una grinza, c'è qualcosa che ci turba nell'immaginarlo fattibile, c'è qualcosa che ci sconvolge guardando film su questo argomento – tra tutti il più famoso è sicuramente “Gattaca”[4]. Che sia solo pregiudizio perché non ne siamo abituati, in quanto in questa generazione non è ancora possibile realizzare quello che vediamo sullo schermo? Eppure nessuno può dire di essere rimasto così intimamente turbato dalla visione di macchine volanti o robot quasi umani nei primi film di fantascienza che rappresentavano il futuro. Ciò che voglio dire è che questo argomento potrebbe essere trattato secondo due approcci. Da un lato si potrebbe considerare tutta la questione procreativa in relazione alle nuove tecnologie come avvolta da una mentalità eugenetica[5], dimostrandone tutte le somiglianze con la "vecchia" eugenetica, mettendone in luce le novità e denunciandone i rischi[6]. Dall'altro, si potrebbero enunciare tutti i principi morali coinvolti per elaborare un giudizio etico appropriato su questo argomento. Pur essendo entrambi molto validi questi due modi di procedere, in nessuno dei due casi troveremmo pieno soddisfacimento alla sensazione di disagio di fronte a questo nuovo approccio alla genitorialità. Già, perché è proprio la genitorialità, la relazione genitori-figlio, nella sua primordiale espressione, ad essere scossa dalle nuove tecnologie.
Il più grande problema umano e quindi morale[7] del miglioramento genetico riguarda, infatti, non tanto la perfezione a cui aspira, quanto la disposizione interiore che promuove a partire dalla originaria e fondamentale relazione tra tutte le relazioni umane possibili, quella tra genitori e figlio.
Questo contributo propone una riflessione sulla genitorialità nell'ambito delle nuove tecnologie con particolare attenzione al problema del miglioramento, con l'obiettivo di offrire una rilettura bioetica del principio di responsabilità applicato alla procreazione.
Per fare questo, si tenterà di analizzare ciò che soggiace a tale approccio alla vita, sviscerandone il problema teoretico e ragionando in termini di humanum nell'ambito dell'accoglienza di un figlio.
§ 2. Genitorialità e mentalità consumista di fronte alla vita: dal poter al dover avere il miglior figlio possibile
Se non c’è nulla di moralmente sbagliato nella speranza di avere un bambino riccioluto e con gli occhi scuri che sprizzi salute da tutti i pori, che cosa può esserci di male nel fare in modo di averlo? Se la soddisfazione di questo desiderio non ha nulla di moralmente cattivo quando è opera di Dio o della natura, perché mai dovrebbe diventare cattiva quando è opera nostra?[8]
Quando la bioetica parla del mutamento di prospettive avvenuto con la rivoluzione tecnologica ragiona sul passaggio avvenuto tra tecnicamente possibile e eticamente accettabile. Io aggiungerei un passaggio intermedio. Cosa rende una tecnica, prendiamo ad esempio lo screening genetico prenatale (diagnosi prenatale e/o diagnosi preimpianto), desiderabile a tal punto da quasi non poterne fare a meno? Le possibilità che oggi la scienza propone entrano a far parte della nostra percezione della realtà, al pari di come il consumismo crea bisogni piuttosto che soddisfarli[9]. Pertanto, ciò che avviene è la creazione non solo di aspettative, ma proprio di nuovi standard a cui conformarsi. Ed è il confronto con questa realtà a mutare poi il sistema valoriale. Il "tecnicamente possibile" muta il nostro approccio alla realtà generando bisogni, insoddisfazione e dunque nuovi bisogni. È qui che avviene il passaggio da ciò che posso a ciò che devo.
In tal senso, richiedere la diagnosi prenatale o, quando sarà possibile, la manipolazione genetica in senso migliorativo, non rientra in un percorso clinico particolare percorribile in alcuni e ben determinati casi, ma è la routine. E questo non tanto o non solo in virtù di una certa valutazione etica della pratica stessa che per alcuni può essere condivisibile e per altri no, ma perché in termini culturali il figlio è un bene "prezioso" che si decide di far rientrare nella propria vita in un dato momento e non in un altro, che va ad incastrarsi all'interno di una vita che scorre e che corre, pianificata secondo un progetto che non prevede errori, anche perché non si avrebbe il tempo per risolverli. All'interno di un quadro come questo, si ritiene fuori di dubbio l'evitamento della nascita di figli cromosomicamente difettosi e si accarezza l'idea di un figlio che sia in grado di sostenere stress psico-fisici da prestazione sempre più elevati. E questo non sempre perché si è cattivi o, fatto un ragionamento ed elaborato un giudizio, perché lo si considera eticamente lecito, ma il più delle volte perché si è ingranaggi di questo sistema: in pratica, se non c'è una forte presa di coscienza, un risveglio della responsabilità e dunque una riappropriazione della libertà autentica, è inevitabile scivolare in questa mentalità funzionalista ed efficientista che porta ciascuno a considerare le proprie ragioni nella ricerca di un figlio sano – e in alcuni casi perfetto – se non plausibili perlomeno sufficienti. E il tecnicamente possibile diventa umanamente desiderabile e moralmente obbligante, a meno che si decida di smettere di stare a mollo in questo fiume in piena della "società liquida"[10], ri-scoprendo la verità – come vuole il greco a-letheia, letteralmente svelamento – la quale, illuminando la ragione, modella e guida la libertà nelle scelte particolari. Solo se radicato nella verità l'uomo smette di naufragare alla ricerca di una libertà illusoria, in cui la scelta procreativa non è un tutt'uno con l'accoglienza del figlio così com'è, ma in cui l'accoglienza delle sue caratteristiche è un passo successivo possibile di abdicazione.
Tuttavia, così collocata non ci stupisce, quasi fosse sorta dal nulla, la teoria della “procreative beneficence” del noto bioeticista Julian Savulescu, secondo cui i genitori avrebbero l'obbligo morale di mettere al mondo il miglior figlio possibile.
The principle of “procreative beneficence”, which he advances, holds that couples (or single reproducers) should select the child, of the possible children they could have, who is expected to have the best life, or at least as good a life as the others, based on the relevant, available information. At first sight, this appears to be a straightforward and strong claim about the obligations of parents. Moreover, what the parents are obligated to do appears to be independent of their ideas about it; the ground of this obligation is most naturally thought of as founded in a concern for the life prospects of the future child. Finally, because they are obligated to choose the best child, it is wrong for them to do anything else[11].
In termini più negativi già John Stuart Mill[12] affermava che mettere al mondo un figlio senza ragionevoli prospettive di assicurargli non solo alimento per il suo corpo, ma anche istruzione ed esercizio per la sua mente, sarebbe un crimine morale, sia contro la sfortunata progenie, sia contro la società e fare figli diventa un delitto[13].
Quest'obbligo di dover rendere conto alla società, ma anche a se stessi delle proprie scelte in ambito procreativo, mette sulle spalle dei genitori un carico molto pesante. Una volta mettere al mondo un neonato con la sindrome di Down era considerato una fatalità; oggi molti genitori con figli affetti dalla sindrome si sentono giudicati o biasimati. Un campo in precedenza dominato dal fato è ora un'arena della scelta[14].
Una prima domanda che ci sorge di fronte a questa teoria è la seguente: chi saranno gli artefici dell' "immagine", secondo quali modelli e in base a quale sapere si potrà scegliere il modello a cui conformare le scelte genetiche[15]? Infatti, a meno che – come nell'eugenetica del passato – sia lo Stato a decidere la lista delle qualità desiderabili della prole, i genitori messi davanti alla scelta illimitata delle caratteristiche "migliori" e quindi ad una libertà apparentemente illimitata nella progettazione del figlio, quale criterio dovrebbero seguire? Miglior figlio secondo quale punto di vista? Dei genitori? Della società?
Si pensi, ad esempio, al caso Duchesneau-McCollough del 2002: due donne che, volendo un figlio sordo come loro, ricercarono un donatore con cinque generazioni di sordi tra i progenitori. Infatti, per loro come per gli altri membri del “Deafpride”, essere sordi non costituiva una menomazione, ma motivo di orgoglio. Le due donne riuscirono nel loro intento e Gauvin, il bambino, è privo dell’udito dalla nascita[16]. Questo caso sembrerebbe dare ragione alla prospettiva liberale[17] che, in riferimento alla libera scelta dei genitori, sostiene che nè lo Stato nè la Medicina impongono un modello genetico come "standard" di orientamento. In realtà, il contesto in cui si collocano queste tecnologie non può che promuovere seppur in modo surrettizio un modello di essere umano da imitare o perlomeno un patrimonio genetico ideale. La mentalità consumistica nei confronti della vita, così abbiamo voluto denominarla poc'anzi, aprirà inevitabilmente questo scenario: i "consumatori" tenderanno spontaneamente – e non indotti dallo Stato o dai medici – a scartare tratti genetici non all'altezza di criteri estetici, medici, culturali, ecc. E sul mercato dei servizi genetici vincerà il prodotto che è più facile commercializzare e si imporrà un tipico modello di individuo da spot pubblicitario.
Uno scenario di questo tipo, anche quando accadesse in un contesto di sostanziale equa eguaglianza delle opportunità, appare comunque segnato da una forma profonda di disceriminazione: il "diverso", colui che non è adeguato al modello di perfezione estetica indotto nei consumatori è radicalmente emarginato o meglio escluso in radice dall'esistenza (..). Se è plausibile sostenere che la dinamica della domanda e dell'offerta condurrà all'affermazione di un modello normativo estetico-energetico di individuo, la prospettiva di una discriminazione significativa per individui geneticamente "meno-che-perfetti" è un esito molto probabile[18].
Questa obiezione porta con sè anche la dimostrazione che l'effettiva realizzazione di questa scelta appare dis-umana. Infatti,
what is far less clear though is whether we can on this account give any content to the idea of the best life possible. Any plausible account of objective goods will include goods of widely different natures, which are probably incommensurable. Any account of the relative merits of these competing goods and the sorts of trade-offs we should make between them will be a thousand times more controversial than this list of goods itself. If goods are incommensurable it may be impossible to rank competing lists of goods. The attempt to identify the best life using an objective list theory of the good is therefore fraught with difficulty; it is at best extremely controversial, if not ultimately impossible[19].
L'altro punto, permetato di una evidente fallacia[20] è il passaggio tra la possibilità e l'obbligo di scegliere il miglior figlio possibile, come segno della responsabilità genitoriale. Ci chiediamo: sono davvero "responsabili" i genitori che programmano geneticamente i figli o che decidono se un figlio può venire alla luce in base alla conoscenza della presenza di malattie o sindromi?
Scrive Hans Jonas che quella dei genitori nei confronti dei figli, «è la più grande di tutte le incognite che tuttavia non può essere inclusa proprio nel dominio della responsabilità totale. Appunto quello che nei suoi effetti sfugge al controllo del soggetto responsabile, la causalità autonoma dell'essere affidatogli, diventa quindi l'oggetto ultimo del suo dovere di tutela. In relazione a questo orizzonte trascendente, la responsabilità, proprio nella sua totalità, non può tanto avere la funzione di determinare quanto quella di rendere possibile (ossia rendere disponibile e tenere aperto»[21].
E, in effetti, è proprio questo il problema morale della responsabilità di fronte alla libertà: è bene che si faccia tutto ciò che è in nostro potere di fare? Infatti, di fronte al potere tecnologico nell'ambito procreativo ad essere messa in pericolo, ancora prima della vita e dunque la sopravvivenza fisica, è la sua immagine, la sua identità[22].
Ecco perché, se l'approccio “storico” della bioetica in ambito prenatale e perinatale è sempre stato diretto alla problematica della salvaguardia del diritto alla vita[23], oggi la stessa disciplina, in virtù delle nuove tecnologie, deve saper andare al cuore della generazione e quindi al cuore di chi genera. La riflessione, a mio parere, oggi deve essere svolta non solo a proposito di chi deve nascere, ma deve includere anche la persona di chi genera e la qualità della relazione parentale. È necessaria una riflessione sul significato dell'essere genitori e sul dovere di riconoscere al figlio il diritto di essere sorpresa a se stesso[24]. Solo così il nascituro si rende presente nel loro orizzonte, ne relativizza i desideri e domanda di riconfigurare il loro progetto procreativo in modo che nella decisione si tenga conto delle esigenze di piena umanità che la sua accoglienza comporta.
Che ci possa essere una conoscenza insufficiente è sempre stato chiaro: che ce ne possa essere troppa è qualcosa che ci sta proprio di fronte, in una luce accecante. (..)
Parlando della responsabilità del potere tecnologico, abbiamo fin qui invocato il pudore di un'ignoranza necessaria: il prezzo di coloro che sono vittime del nostro agire[25].
Nell’intervento genetico - sia esso selettivo sia esso migliorativo – chi è sottoposto a giudizio, il figlio, non è più “fine in sé”, ma egli stesso deve raggiungere un fine, quello dei genitori. Dunque, se prima il figlio dipendeva dai genitori in termini di causa fiendi, ora vi dipende come da causa essendi. In particolare, l’ingegneria genetica migliorativa, produce quello che Habermas chiama paternalismo sui generis[26], un condizionamento definitivo – perché irreversibile – che stravolge la base di ogni rapporto di uguaglianza tra gli uomini. I genitori, infatti, hanno pro-creato aspettative e pro-iettato idealizzazioni sul figlio, senza tuttavia concedergli il beneficio di svincolarsi da esse; seppur con “ansie protettive”, gli hanno impedito fin dall’inizio di essere ciò che è, irrevocabilmente e, tramite un’aspettativa unilaterale e incontestabile, hanno semplicemente deciso in base alle loro preferenze, come se potessero arbitrariamente disporre di una cosa.
Infatti, quando una certa persona prende una decisione irreversibile sull’auspicabile composizione del genoma di una seconda persona nasce tra i due soggetti un tipo di relazione che mette a repentaglio il presupposto dell’autocomprensione morale di persone autonomamente agenti e giudicanti[27]. La convinzione che a tutte le persone spetti un eguale status normativo, e che tutte debbano darsi simmetrico e reciproco riconoscimento, discende da una ideale reversibilità delle relazioni interumane. Nella prassi genetica, invece, è distrutta la normale reciprocità tra soggetti, in quanto il “designer” dispone delle caratteristiche genetiche del programmato, il quale potrebbe, una volta nato, anche comprendere e giustificare le intenzioni del programmatore, ma non modificarle. In altre parole, il “prodotto” non può a sua volta progettare un “design” per il suo “designer”[28].
Come, infatti, afferma Kuhlmann: «è naturale che i genitori si siano sempre lasciati andare a fantasie di desiderio circa il futuro dei loro bambini. Altra cosa sarebbe però se questi bambini dovessero fare i conti con idee pre-fabbricate e se da queste idee dipendesse in ultima istanza la loro esistenza»[29]. In questo caso, la prospettiva del partecipante che caratterizza la vita vissuta entra in collisione con la prospettiva oggettivante di produttori e sperimentatori[30]. È da questi presupposti che Jonas ricava, relativamente al patrimonio genetico del figlio posto alla mercede dei genitori, il riconoscimento di un "diritto all'ignoranza".
Credo che, oltre a questo principio, si debba considerare un tratto tipico dei genitori che si affacciano alle metodiche di diagnosi genetica che poi sfociano in tecniche di fecondazione in vitro o nell'eliminazone del figlio difettoso: la scarsa consapevolezza del limite, altro tratto caratteristico del contesto liberale. Scorgiamo, infatti, in queste tecniche una sorta di "delirio di onnipotenza" dei genitori che più o meno consciamente si lasciano andare ad una mentalità produttivista ed efficientista fino agli eccessi più volte citati: l'ottenimento di un figlio a tutti i costi - anche se ciò comporta la perdita di altri embrioni - l'appropriazione del bisturi - nel decidere se la sua vita debba proseguire o essere interrotta - e, in futuro, la programmazione del suo patrimonio genetico. E questo perché, mancando il limite, il desiderio umanamente giusto di un figlio sano diventa un diritto, e il diritto, come in un eterno ritorno, diventa dovere, dovere verso se stessi e, in seconda istanza, come già avviene per la regolazione della natalità[31], dovere verso la società.
Prendere coscienza del limite è recuperare la consapevolezza della genitorialità come primariamente fondata sulla responsabilità e sulla cura.
La responsabilità è la cura per un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando "apprensione" nel caso in cui venga minacciata la vulnerabilità di quell'essere. Ma la paura è già racchiusa potenzialmente nella questione originaria da cui ci si può immaginare scaturisca ogni responsabilità attiva: che cosa capiterà a quell'essere, se io non mi prendo cura di lui? Quanto più oscura risulta la risposta, tanto più nitidamente delineata è la responsabilità[32].
§ 3. Dalla tecnologia solo ombre?
A causa di un'ostinata "accidia intellettuale"[33], dal mondo che proclama ai quattro venti il progresso scientifico e la necessità di incrementarlo sempre di più, non viene posta adeguatamente l'attenzione ai passi avanti che la tecniche di medicina prenatale e perinatale hanno compiuto negli ultimi anni. L'accenno a queste metodiche, seppur scarno e poco esaustivo all'interno di questo contributo, vuole rappresentare il fatto che l'avanzamento tecnologico in questo ambito non è affatto negativo in se stesso, anzi può essere molto lodevole nella misura in cui protegge e addirittura salva vite umane.
Mi sembra importante evidenziare due contesti a riguardo: le terapie fetali e la rianimazione neonatale[34].
Per quanto riguarda le terapie fetali, ad oggi le modalità di cura del feto in utero sono molto avanzate[35] sia in termini di metodica[36] sia in termini di approcci[37]. Per citare alcuni esempi, si pensi che l'approccio intravascolare ha fatto salire la sopravvivenza dei feti dal 60% al 92%. Oppure, nel caso di perdita completa di liquido amniotico, l'immissione di soluzione salina ha portato la sopravvivenza, quindici anni fa assente, al 40-60%. Sono possibili anche metodiche che associano approcci invasivi uniti a metodiche non invasivi, come nella terapia fetale integrata attraverso la somministrazione di farmaci alla madre.
È ovvio che i criteri che hanno guidato il raggiungimento di questi risultati erano essenzialmente tre: 1) la considerazione del feto come paziente da trattare con un approccio individualizzato e personalizzato; 2) un bilanciamento etico rigoroso che ha fatto scegliere in tutte le occasioni metodiche invasive con un rischio eticamente accettabile e proporzionato; 3) un counselling alla coppia che fosse estremamente veritiero sulle possibilità di terapia di quel feto e rifuggisse da forme di accanimento terapeutico. (..)
I dati cumulativi di 20 anni di esperienza dimostrano che una medicina fetale eticamente guidata realizza risultati impensabili, restituendo dignità alla diagnosi prenatale come momento propedeutico per curare e non per uccidere[38].
Oltre alle procedure curative, la scienza oggi permette anche di parlare di prevenzione per le medesime malattie, attraverso l'assunzione di folati o attraverso il controllo preconcezionale del diabete, solo per citare alcuni esempi.
Passando dalla vita prenatale alla vita e alle terapie perinatali, la cura dei neonati di basso, per non dire bassissimo, peso alla nascita e prematura età gestazionale è sicuramente uno dei maggiori successi della medicina in questo ambito. Si pensi che solo trent'anni fa era praticamente impossibile salvare bambini di 28 settimane gestazionali, mentre oggi sopravvivono a ventidue[39]. Tale successo è legato ad una gestione collaudata delle malattie infettive, all'ingegneria biomedica che ha disegnato microstrumenti all'avanguardia (cateteri, microtubi, ecc.), ma soprattutto all'utilizzo di cortisonici (come il surfattante) che, assunti dalla madre, sono in grado di far dilatare precocemente gli alveoli polmonari, altrimenti immaturi, in caso di parto prematuro. La scienza sta facendo passi da gigante anche per quanto riguarda la gestione delle patologie che si presentano frequentemente nei neonati di basso peso e di precoce età gestazionale sopravvissuti, come la retinopatia del prematuro o le emorragie cerebrali, tanto che da uno studio[40] emerge che su bambini nati a 23-25 settimane il 30-40% non ha alcuna patologia e che gli ospedali in cui vengono curati tutti i nati dalle 22 settimane in su, rispetto a quelli in cui si applicano cure selettive, hanno un minore tasso di mortalità e di patologie.
Come si vede da questo breve accenno, la scienza, come può fare molto per manipolare e distruggere la vita prenatale e perinatale, può fare molto anche per proteggerla. E questo perché è uno strumento. Allora da cosa dipende un utilizzo giusto o sbagliato di questo strumento? Dalla considerazione, o meglio dal riconoscimento, del soggetto verso il quale tale strumento, la scienza, è rivolto. La comprensione delle modalità di approccio alla vita nel suo sorgere, nella condizione di più grande fragilità, è fondamentale nella nostra analisi. Si può cogliere l’altro reificandolo e disgregandolo guardandolo come un insieme di funzioni o di parti organiche più o meno abili e non riconoscendo in lui un unicum che precede e “sostiene” tali capacità[41]. Oppure, lasciare che egli si manifesti, indipendentemente da qualsiasi posizione che noi potremmo aver preso nei suoi confronti. L’io che si avvicina all’altro in termini di gratuità permanente resta soggetto, proprio perché compie un’operazione di potenziamento dell’essere nell’altro. E anche il tu resta soggetto, in quanto e nella misura in cui l’io si avvicina al tu con immenso rispetto sia formale sia sostanziale. E così, non lo tratta con lo sguardo strumentalizzante, ma gli lascia intatta, potenziandone l’essere, la sua soggettività al cui servizio si pone[42].
La vita umana ha valore di fine, cosa che esclude ogni strumentalizzazione e sfruttamento ed esige che ogni ricerca, sperimentazione e intervento siano per un suo maggiore beneficio. Il valore finale ne delegittima ogni manipolazione non terapeutica, così come ogni soppressione volontaria e diretta. Il valore di fine decide e misura la bontà della vita umana non dal suo “modo di essere” (sosein) ma dal suo “esserci” (dasein). Così che nessuno dal di fuori – nessun potere legislativo, nessuna rivendicazione parentale, nessun consenso sociale – ha il diritto di decidere di essa, ma solo il dovere di consentirne e favorirne il decorso vitale.
§ 4. Fare o accogliere un figlio: considerazioni antropologiche ed etiche
In un mondo sociale che apprezza la padronanza e il controllo, essere genitori è una scuola di umiltà. Essere chiamati a curarci dei figli senza poterli scegliere secondo i nostri gusti ci insegna ad essere aperti al non cercato. Una simile apertura è una disposizione che vale la pena di affermare, non solo nella sfera famigliare, ma nel mondo in generale. Ci invita ad accettare l'inatteso, a convivere con le dissonanze, a tenere a bada l'impulso di controllo[43].
Per Levinas, l'etica si fonda su di un appello rivolto all'intimo di ognuno di noi da parte del “volto”, come immagine dell'uomo "nudo" e indifeso, che lungi dal lasciarsi ridurre ad oggetto di conoscenza comanda in forma del tutto incondizionata di non ucciderlo, ovvero di sentirmi responsabile della sua vita. In questo modo il volto altrui ribalta la mia soggettività di essere egocentrato, preoccupato solo del mio proprio essere, rendendomi "soggetto responsabile", rispondente come tale della sua vita[44].
Il comandamento etico, in altre parole, origina, secondo l'autore, da una prospettiva davvero interessante, quella più connaturale al nostro essere uomini, ovvero dalla relazione con il "tu", una relazione che mi impegna direttamente. L'altro, per il suo stesso essere ed esistere mi interpella, stravolgendo ogni mio schema conoscitivo precostituito nei suoi confronti e la sua prossimità mi rende responsabile di lui promuovendo l'espressione più alta della libertà e dunque della mia umanità. Scrive Levinas: l'essere che si impone non limita, ma promuove la mia libertà, facendo nascere la mia bontà[45].
Credo che questo approccio all'altro come essere di cui prendersi cura, possa essere calato molto bene nell'ambito della genitorialità ai fini della nostra analisi. Come si fa, infatti, a non pensare all'embrione come a quel volto indigente che mi rivolge il comando etico: «fammi vivere»? Come non pensare al feto o al neonato come quella nudità indifesa che esige di essere riconosciuto con un atto di donazione[46]?
Dunque, ritorna la vera essenza della responsabilità dell'uomo verso il suo simile, del genitore verso il figlio:
il soggetto responsabile è liberato dall'incatenamento a se stesso, dalla noia della propria statica identità. (..) Una responsabilità infinita in cui la libertà si scopre nella sua più profonda natura come assoluta gratuità. Non certo la gratuità del gioco irresponsabile, quanto la gratuità della responsabilità, che è libera perché nell'assumere su di sé il carico della vita altrui è svincolata da ogni contabilità del dare e dell'avere[47].
Dunque, gratuità nel dare, ma soprattutto gratuità nell'accogliere. Un approccio alla considerazione del figlio diametralmente opposta alla “mentalità consumistica” da cui eravamo partiti. È proprio questa la sfida: considerare il figlio come altro da sé, come qualcuno da custodire e da accompagnare, e non come qualcosa di proprio.
Come, a proposito sottolinea, William May[48], l'amore dei genitori si compone di due dimensioni: è amore che accetta e amore che trasforma. L'amore che accetta riconosce l'essere del figlio nell'accoglienza, l'amore che trasforma ricerca il suo bene. Ora, i genitori fanno spesso fatica a trovare un equilibrio, che è necessario, tra questi due aspetti; infatti, «senza l'amore che trasforma, l'amore che accetta diventa indulgenza e infine negligenza. Senza l'amore che accetta, l'amore che trasforma diventa assillante e finisce col respingere»[49].
In fondo, lo stesso può dirsi della scienza: essa ci invita da un lato ad osservare il mondo, a studiarlo e ad apprezzarlo, dall'altro a plasmarlo, a cambiarlo e a migliorarlo[50].
Capiamo, allora, che la più grande obiezione alla manipolazione genetica sia in senso migliorativo sia in senso selettivo si basa proprio sulla disposizione interiore con cui i genitori si rivolgono a tali pratiche. È la hybris dei genitori, la loro mania di controllo del mistero della nascita ad avvilire la relazione genitoriale nel suo stesso sorgere[51]. Un figlio non sarà mai perfetto, non coinciderà mai col bambino immaginario che ogni genitore costruisce nel proprio inconscio.
Forse è proprio questa oggi la sfida della tecnologia, ma anche dei genitori di fronte alla vita nascente: tornare a guardare l'essere umano, e ancora di più un figlio, con sguardo contemplativo; quello sguardo di chi «vede la vita nella sua profondità, cogliendone le dimensioni di gratuità, di bellezza, di provocazione alla libertà e alla responsabilità. È lo sguardo di chi non pretende di impossessarsi della realtà, ma la accoglie come un dono»[52].
[1] È letteralmente la scelta delle cellule germinali. Nel suo progetto, la selezione germinale avrebbe dovuto condurre alla “produzione” di un soggetto umano della “qualità desiderata”; mentre, la selezione genotipica, avrebbe implicato, a seguito di una diagnosi precoce in gravidanza, l’eliminazione, con l’aborto, richiesto o imposto, di un soggetto a rischio per una grave malattia; infine, la selezione genica, appena i progressi nella conoscenza del genoma umano ne avessero aperto le strade, avrebbe dovuto portare al miglioramento della specie umana. Cfr. H.J. Muller, What genetic course will man steer?, in J.F.Crow, J. Neel (a cura di), Proceedings of the Third International Congress on Human Genetics, Johns Hopkins Press, Baltimore, 1967, pp. 521-535.
[2] Cfr. D.Kevles, In the name of Eugenics, Harvard University Press, Cambridge, 2001³, p.98.
[3] Il temine è usato da M.Sandel in Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica, Vita e Pensiero, Milano, 2007.
[4] Film del 1997, scritto e diretto da Andrew Niccol.
[5] Questo aspetto, emerge in modo particolare nel caso dell'aborto selettivo. Infatti, sostenere che il concepito abbia un diritto a non nascere, sia pure in determinate situazioni di malformazione, significa affermare l’esistenza di un principio di eugenesi o di eutanasia prenatale, che è in contrasto con i principi di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., nonchè con i principi di indisponibilità del proprio corpo di cui all’art. 5 c.c. Va poi osservato che se esistesse detto diritto a non nascere, se non sano, se ne dovrebbe ritenere l’esistenza, indipendentemente dal pericolo per la salute della madre, derivante dalle malformazioni fetali, e si porrebbe l’ulteriore problema, in assenza di normativa in tal senso, di quale sarebbe il livello di handicap per legittimare l’esercizio di quel diritto, e, poi, di chi dovrebbe ritenere che detto livello è legittimante della non nascita (...).
Infatti, anche se non vi fosse detto pericolo per la salute della gestante, ogni qual volta vi fosse la previsione di malformazioni o anomalie del feto, la gestante, per non ledere questo presunto diritto di “non nascere se non sani” avrebbe l’obbligo di richiedere l’aborto, altrimenti si esporrebbe ad una responsabilità (almeno patrimoniale) nei confronti del nascituro, una volta nato. Quella che è una legge per la tutela sociale della maternità e che attribuisce alla gestante un diritto personalissimo, in presenza di determinate circostanze, finirebbe per imporre alla stessa l’obbligo dell’aborto (salvo l’alternativa di esporsi ad un’azione per responsabilità da parte del nascituro). Diversamente si verifica nell’ordinamento francese, in cui la legge 162-12, Code Santè Pubblic, prevede “la possibilità di interrompere la gravidanza fino alla nascita, quando esiste una forte probabilità che il nascituro sia portatore di un’affezione di una particolare gravità riconosciuta come incurabile al momento della diagnosi”. In quell’ordinamento sembra che sia la stessa legge a riconoscere che la nascita di un handicappato sia un danno. Dunque siamo di fronte ad una "nuova eugenetica" che trasforma il diritto di Stato di avere un capitale biologico di qualità in una prassi legittima perché legittimata dalla scelta del genitore nei confronti del figlio? Cfr. Corte di Cassazione, Diritto di non nascere, in “Ginecologia e Ostetricia forense”, 2/2004, p.55.
[6]Su questo, mi permetto di rimandare a G.Brambilla, Il mito dell'uomo perfetto. Le origini culturali della mentalità eugenetica, If Press, Morolo, 2009.
[7] Va da sé che, in caso di soppressione del figlio con l'aborto, chiamato appunto aborto eugenetico, la gravità morale sarebbe determinata dal dato oggettivo dell'interruzione di quella vita umana, prima ancora che dal "fine ulteriore" di avere un figlio sano.
[8] J.Harris, Wonderwoman e Superman, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 1997, p.236.
[9]Cfr. Z.Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Milano, 2006.
[10]Cfr. Z.Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Milano, 2006.
[11] Cfr. J.Savulescu, Procreative Beneficience: Why We Should Select The Best Children, in "Bioethics", 15/2001, pp. 413-426.
[12] Cfr. J.Stuart Mill, Sulla libertà, G.Mollica (a cura di), Bompiani, Milano, 2000.
[13] In questo contributo, volendomi concentrare del mutato approccio alla genitorialità, non tratto il cosiddetto "torto da procreazione". Ne faccio accenno qui per completezza. Recentemente, nei tribunali, si sono affacciati due nuovi “torts”: quello di “wrongful birth” e quello di “wrongful life”. A dare il via a questo nuovo orientamento è stata la corte d’appello californiana con il caso “Curleder versus Bio-Science Laboratory”. La corte, negli anni ‘80, decretò il risarcimento alla famiglia da parte della struttura sanitaria, affermando che la coppia non fosse stata adeguatamente informata circa il loro essere portatori della gangliosidosi di Tay-Sachs; inoltre, sostenne, in un obiter dicitum, che esiste un dovere dei genitori di evitare la nascita di bambini handicappati e che, quindi, la procreazione consapevole di un bambino handicappato è un atto di negligenza.
Si ricordi anche il caso Perruche, giovane afflitto sin dal primo anno di vita da irreversibili disfunzioni, in seguito all’infezione di Rosolia, cui fu esposta la madre durante la gravidanza, in quanto malinformata circa gli accertamenti da eseguire per appurare che l’infezione fosse realmente in corso e sui relativi rischi di malformazioni al feto. La famiglia nel 2000 richiese un risarcimento a fronte del “diritto a non nascere” negato al proprio figlio. Nell’accogliere la domanda, la Corte di Cassazione cercò di stabilire un nesso di causalità diretta tra le menomazioni sofferte dal ragazzo e l’errore medico che avrebbe impedito alla madre di scegliere il ricorso all’aborto terapeutico. Tale causalità giuridica si fondava sulla certezza che, se la diagnosi fosse stata corretta, l’interruzione di gravidanza avrebbe avuto luogo, cosicché, paradossalmente, si sarebbe posto riparo al danno. Laddove, invece, dalle dichiarazioni della madre e dei familiari non fosse stato possibile provare, al di là di ogni dubbio, la volontà certa di praticare l’aborto, il nesso sarebbe venuto meno e così il risarcimento. Le domande di risarcimento accolte nel caso Perruche rientrano nelle definizioni di wrongful birth e wrongful life action. Entrambe imputano a una medical malpractice la causa diretta di una nascita che, se le informazioni fossero state corrette, non sarebbe sopraggiunta, in quanto interrotta con l’aborto. La differenza risiede nei soggetti attivi dell’azione, che nel primo caso sono i genitori e nel secondo è il figlio stesso.} ma ancor prima dal punto di vista di chi procrea.
[14]Cfr. M.J.Sandel, op.cit., p.91
[15] Cfr. H.Jonas, Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Einaudi Paperbacks Filosofia, Torino, 1990, p.28.
[16] Per l’analisi del caso: M.Driscoll, Why We Chose Deafness for Our Children, in “Sunday Times”, 14/4/2002 e L.Mundy, A World of Their Own, in “Washington Post”, 31/3/2002.
[17] Fino alla cosiddetta “genetica liberale” i poli entro cui si muoveva la “scelta del più adatto” erano Stato-specie (o razza o categoria sociale): lo Stato mediante eugenisti e scienziati in nome del benessere della collettività metteva in atto programmi medico-sociali massificati rivolti a una determinata categoria di individui ritenuti “dannosi”. Invece, la prassi eugenetica della società liberale si basa sul binomio individuo-individuo nel contesto di una diffusione sistematica della diagnosi prenatale e dell’applicazione delle tecniche di ingegneria genetica (Cfr. N.Agar, Liberal Eugenics, in H.Khuse, P.Singer (a cura di), Bioethics, Blackwell, London, 2000, p.17.). Quindi, mentre la vecchia genetica autoritaria cercava di modellare i cittadini a partire da un unico stampo centralizzato, portando come conseguenza una diminuzione dell’ambito della libertà riproduttiva, la nuova eugenetica liberale, caratterizzata dalla neutralità dello Stato, estende radicalmente tale libertà ed è il singolo a decidere quali fattori genetici siano vantaggiosi o meno.
[18]R.Mordacci, Etica ed eugenetica "liberale", in "Humanitas", 4/2004, pp.721-722.
[19] R.Sparrow, Procreative Beneficence, Obligation, and Eugenics, in "Genomics, Society and Policy", 3/2007, pp.49-50.
[20] Su questo commenta Sparrow: «An obligation to have the best child would require parents to do something which is independent of their desire to do it, and would retain its force even in the face of substantial (non-moral) reasons the parents might have to pursue another course of action. Savulescu is therefore confusing reason and obligation at the very foundations of his account. Tellingly, this ambiguity is present in the example that Savulescu chooses to illustrate the nature of the obligation he is postulating. He claims that the “should” in “parents should choose the best child possible” is the same as the “should” in the proposition that “you should stop smoking”. This example obscures more than it illuminates as the “should” in this latter phrase is itself indeterminate between a requirement of practical rationality and a moral claim. In one sense, smokers ought to give up smoking if they want to avoid cancer. This is a hypothetical imperative and has no force for the smoker who values the pleasures of nicotine above those of a long life. Moreover, once the smoker has explained his or her values to us, we must acknowledge that in fact they should not stop smoking. However, on another stronger reading, the “should” in “you should stop smoking” is a normative or moral claim. This is in fact the proper form for modelling obligation. This imperative holds regardless of the smoker’s set of preferences and is (presumably) founded in a judgement that self-harm is morally wrong or that it is not possible to smoke without subjecting others to an unacceptable risk from passive smoking». We can rightly continue to insist that the smoker should stop smoking even in the face of their confession that they are happy to risk cancer in the pursuit of pleasure. It also follows from this second sense of the claim that the smoker should stop smoking that the smoker is wrong to smoke, does a bad thing if they smoke, and also that we have some prima facie justification for taking action to prevent them from smoking».
[21]H.Jonas, op.cit., p.135.
[22]Cfr. P.Prini et Al, Libertà ed etica della responsabilità, Cittadella Editrice, Assisi, 1997.
[23]Cfr. E.Sgreccia, Manuale di bioetica, vol.I, Vita e Pensiero, Milano, 1994². Cfr. A.Serra, Problemi etici della diagnosi prenatale, in “Medicina e Morale”, 1/1982, pp.52-61.
[24] Cfr. L.Galvagni, L'eugenetica: la prospettiva etica di Hans Jonas, in “Humanitas”, 4/2004, p.714.
[25] H.Jonas, L'ingegneria biologica: una previsione, in Id, Dalla fede antica all'uomo tecnologico, Il Mulino, Bologna, 1991, p.251, corsivo mio.
[26] L'espressione è di Jürgen Habermas in Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino, 2002.
[27]Cfr. J.Habermas, op.cit., p.64
[28]Ibidem
[29] A.Kuhlmann, Politik des Lebens, Politik des Sterbens, Berlin, 2001, p.17
[30]Cfr. J.Habermas, op.cit., p.52.
[31] Specialmente da parte dele organizzazioni non governative dell'ONU (UNFPA, IPPF, ecc.) provengono numerosi richiami sulla necessità "verde" – e quindi nell'ottica di salvaguardia del Pianeta – di mettere al mondo un numero limitato di figli, con note di biasimo verso chi sfora il massimo di due/tre per coppia, con la conseguente massiva diffusione di contraccettivi. Numerosi documenti si trovano sul sito: http://www.unfpa.org.
[32] H.Jonas, Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Einaudi Paperbacks Filosofia, Torino, 1993, p.285, (corsivo dell'autore).
[33] L'espressione è di Giuseppe Noia in Terapie fetali e diritto alla vita dei feti che pure moriranno, in "I quaderni di Scienza e Vita", 3/2007, p.56.
[34] Per un approfondimento su questo secondo punto rimando al mio Questioni etiche in rianimazione neonatale in sala parto e in TIN, in P.Grassi-S.Modica (edd.), La vita alla prova del tempo, Santocono Editore, Rosolini, 2012, pp.21-44.
[35]Cfr. G.Noia, op.cit., pp.51-63.
[36] Si parla di terapia fetale transplacentare, invasiva ecoguidata e chirurgica fetale "open" o fetoscopica e "non open".
[37] Gli approcci terapeutici invasivi di cura proporzionat e dunque eticamente accettabili sono: intralesionale, intramniotico, intracardiaco, intracavità sierose, intraurinario, intravascolare e intra cavità celomatica.
[38]G.Noia, op.cit., p.59.
[39]Cfr. C.Bellieni, Cure per i neonati considerati "grandi prematuri", in "I quaderni di Scienza e Vita", 3/2007, pp.65-75.
[40]Cfr. F.Serenius et Al., Short-term outcome after active perinatal management at 23-25 weeks of gestation. A study from two Swedish tertiary care centres, in "Acta Pediatrica" 93/2004, pp.1081-1089.
[41]Cfr. R.Lucas Lucas, Antropologia e problemi bioetici, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001.
[42] Scrive Levinas: «La manifestazione ϰαϑ’αὑτό (kath’autó) consiste per l’essere nel dirsi a noi, cioè nell’esprimersi, indipendentemente da qualsiasi posizione che noi potremmo aver preso nei suoi confronti. Qui, contrariamente a tutte le condizioni di visibilità degli oggetti, l’essere non si situa nella luce di un altro, ma si presenta da sé nella manifestazione che deve soltanto annunciarlo», in Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano, 1995, p.64, (aggiunta in greco mia).
[43]M.Sandel, op.cit., pp.89-90.
[44]Cfr. G.Ferretti, La filosofia di Levinas. Alterità e trascendenza, Rosenberg & Sellier, Torino, 1996.
[45]E.Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, op.cit., p.205.
[46] Cfr. G.Ferretti, Da Kant a Levinas: il nuovo rapporto tra etica e ontologia, in P.Prini et Al., Libertà ed etica della responsabilità, op.cit., pp.23-54.
[47]Cfr.E.Levinas, Altrimenti che essere, citato in G.Ferretti, op.cit., p.48.
[48] Cfr. W.F.May, The President's Council on Bioethics: My take on Some of Its Deliberations, in "Perspectives in Biology and Medicine", 48/2005, pp.230-231.
[49]Ibidem
[50]Cfr. M.Sandel, op.cit., p.59
[51]Cfr. Ibidem, p.56.
[52]Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica "Evangelium Vitae", Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1995, n.83.