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Si potrebbe dimostrare che Parmenide, prima ancora di essere il padre del materialismo e dell’idealismo, debba scontare la paternità del nichilismo ontologico, differente da quello esistenziale contemporaneo solo nella forma, ma non nel contenuto. Ora, il nichilismo moderno ha ragion d’essere sia come espressione nominalistica, sia come espressione panteistica.

San Tommaso affermava che tra l’essere di Dio e l’essere degli enti c’è un rapporto di analogia, cioè di somiglianza. Somiglianza significa relazione. Relazione significa differenza, nel senso di reciproca e distinta identità.

L’univocità è quella relazione in cui

>> il significato del termine è perfettamente identico: ma se la bontà dell’albero è perfettamente identica alla mia, vuol dire che io e l’albero siamo la stessa cosa, siamo determinazioni finite di un’unica sostanza. Infatti per Parmenide l’essere è uno e unico, quanto nelle religioni orientali l’Uno-Tutto è coincidenza degli opposti, incondizionata indeterminazione. Infatti per Parmenide il molteplice è finzione, quanto per Buddha è illusione la sussistenza del sé.

I panteisti moderni scelsero questa via: Deus sive Natura. Univocità dell’essere.

Lutero e gli scienziati negarono l’analogia scolastica, a favore della equivocità: tra Dio e il mondo, tra Dio e l’uomo non esiste nessuna relazione. Dio è al massimo il garante ultimo dell’universo, il grande orologiaio, il grande architetto. Oppure è l’anarchia imperscrutabile della Grazia salvifica.

In entrambi i casi si nega il verum dell’esistenza, il verum della identità e della relazione. Si determina il nulla dell’essere. Nichilismo. Ha la sua validità ciò che dice Molinaro, circa il problema del nichilismo come «il problema dell’essere, in quanto il primo si configura in correlazione essenziale con il secondo», circa l’interpretazione del nichilismo che «si risolve necessariamente nell’interpretazione dell’essere». Ha ragione quest’ultimo a determinare il nichilismo non come problema del nulla o sul nulla, giacché il nulla non costituisce di per sé un problema, il nulla non è, ma come il problema del nulla dell’essere, il problema del nulla come «negazione, oblio, eclissi dell’essere, del nulla che si pone contro alla innegabilità, alla inobliabilità, all’ineclissità dell’essere»[1].

Nietzsche fece dell’univocità del divenire la legge e il fine dell’oltreuomo: l’uomo che superava se stesso, nella imprevedibilità del suo destino, nell’amor fati, nella volontà di potenza.

Una potenza assoluta che proprio Occam e Lutero avevano anticipato nella teologia.

 

 E'probabile che non sia causale il richiamo che Nietzsche fa al coglimento da parte di Eraclito della realtà come «fenomeno dionisiaco, il quale ci rivela ogni volta di nuovo il gioco di costruzione e distruzione del mondo individuale come l’efflusso di una gioia primordiale»; è probabile che non sia causale il richiamo, già in La filosofia all’epoca tragica dei Greci, ad Eraclito, come colui che ha partorito la «visione terribile, che stordisce, ed è assai affine alla sensazione con cui, durante un terremoto, si perde la fiducia nella solidità della terra», proprio quella visione secondo la quale «il divenire eterno ed unico, la completa instabilità di tutti gli oggetti reali, che non fanno altro se non agire e divenire continuamente, e che non sono»: questa stessa visione ha fondato il nichilismo attivo, basato sulla univocità del divenire, la quale si contrappone solo apparentemente all’univocità parmenidea dell’essere. Apparentemente, perché >>

sia l’univocità del divenire sia quella dell’essere partoriscono il nichilismo.

La critica di Nietzsche all’essere metafisico passa attraverso la critica radicale alla soggettività umana, quanto l’avvento dell’oltreuomo scaturisce dalla morte di Dio. È vero che «il pensiero vero e proprio di Nietzsche consiste in un sistema al cui principio sta la morte di Dio, nel mezzo il nichilismo che da quella deriva, e alla fine l’autosuperamento del nichilismo verso l’eterno ritorno»[2]. Gli Stoici appropriandosi di se stessi si appropriavano del logos universale, uniformandosi all’essere razionale determinato, necessario. L’oltreuomo si appropria dell’eterno ritorno, volendolo, essendolo, passando dal TU-DEVI all’IO-VOGLIO, e infine all’IO-SONO. E in questo è un liberatore e Zaratustra è il suo profeta. È nel giusto Vattimo quando scrive: «nella sintesi dei tre significati che l’eterno ritorno è venuto fin qui rivelando: rovesciamento della struttura rigida del tempo, liberazione del passato come autorità e soggezione, liberazione del simbolico, si possono vedere le linee che definiscono anche quello che Nietzsche ha chiamato Uebermensch; il quale in tal modo, come già abbiamo avuto modo di osservare, si manifesta come una forma di umanità collocata totalmente oltre l’uomo così com’è oggi; non una intensificazione dell’essenza uomo quale finora si è manifestata, e nemmeno, come vuole Heidegger, l’uomo in quanto capace di “andare oltre”, in una direzione che conferma e potenzia soltanto le strutture della metafisica su cui si fonda il nostro mondo. Questa figura di oltreuomo, come colui che vive in sé i tre fondamentali aspetti dell’eterno ritorno, rappresenta la risposta di Nietzsche al problema che si era posto a conclusione dell’itinerario dell’autonegazione della metafisica, riassunto nella questione dello spirito libero, della sua eccezionalità e provvisorietà»[3]. Sono persuaso che solo Nietzsche abbia rifiutato in modo assoluto l’unità della natura umana con quella divina e abbia realizzato nell’essenza l’Anticristo e il rifiuto dell’Incarnazione, storicamente o idealisticamente compresa, nella misura in cui ha negato all’Umanità l’autenticità del Grande Essere e del vero Uomo- Dio. La morte di Dio è la morte dell’umanità tutta, dell’Uomo-Dio. In questo la sfida della filosofia nietzscheiana risiede nel fatto di volersi sottrarre all’istanza metafisica propria di ogni filosofia, pur non riuscendovi. E non per la lettura che dà Heidegger dell’Essere divenuto il valore, per cui «la ousía (essentità) del subjectum diviene la soggettività dell’autocoscienza, e quest’ultima porta ora alla luce la propria essenza come volontà di volontà. La volontà, in quanto volontà di potenza, è il comando della plus-potenza»[4]. Volontà che, dice Nietzsche in Genealogia della Morale, «preferisce il Nulla piuttosto che non volere».

Comprendo il rifiuto nietzscheiano della modernità e il suo recupero eracliteo dell’univocità del divenire. Associo ciò – e non pongo in antitesi – con l’univocità parmenidea. Aggiungo che la radice dell’autoreferenzialità dell’autocoscienza non risiede in Cartesio, bensì in Lutero, e quello che Cartesio fece di Lutero – la razionalizzazione dell’escatologia, sul piano della gnoseologia – fu quello che i rivoluzionari moderni fecero con Gioacchino da Fiore: la secolarizzazione dell’escatologia, sul piano della politica. Lutero, infatti, è all’origine di una eccezionale simbiosi tra equivocità dell’essere e di Dio da un lato e univocità di una libertà, che si predica in Dio come anarchia della Grazia e forza necessitante per l’uomo. È una conseguenza logica che salvaguardare il nulla dell’essere (frainteso come insieme degli enti) e di Dio (frainteso come ente fra enti) appaia ai moderni l’unica via per affermare la libertà. Il fatto è che questa affermazione resta intrappolata nelle maglie luterane, nella misura in cui resta una libertà univocamente rivendicata dall’essere umano. Questa rivendicazione fa credere a Sartre che «l’uomo non è affatto prima, per essere libero dopo, non c’è differenza fra l’essere dell’uomo e il suo essere-libero». In verità questa libertà non esiste; se esistesse non esisterebbe l’uomo stesso: infatti l’esistenzialismo rappresenta la nullificazione gnostica dell’uomo, integralmente pensato: la verità del Nulla. Il problema risiede nel fatto che è proprio Lutero il postulatore di questa verità del nulla, a cui non si sottrae Nietzsche. Quest’ultimo non fa altro che affidare all’oltre-uomo quella volontà che Lutero attribuiva a Dio, senza potersi sottrarre alla necessità ontologica, alla problematicità dell’essere nella sua concezione univoca che implica a sua volta «una concezione nominalistica della realtà. Il che significa considerare la realtà sensibile sprovveduta di ogni carattere interno di intelligibilità, vuota di ogni elemento razionale; cioè priva di ogni momento interno metafisico capace di rendere ragione dell’ordine apparente delle cose»[5].

 

 

 

 

Ha ragione Marx a chiamare Feuerbach un secondo Lutero. Come Hobbes secolarizzerà nell’ambito politico il volontarismo teologico di Occam e Lutero, allo stesso modo il nichilismo secolarizzerà l’individualismo e il soggettivismo protestante. Apparentemente la sola fides è l’opposizione massima alla sola ratio illuministica. In realtà sono applicazioni di una stessa base originaria che pone il soggetto nel suo solipsismo ontologico, gnoseologico, escatologico, anche là dove si vuole rinunciare a qualsiasi istanza del sacro. Ha ragione Feuerbach a risalire non a Cartesio, ma a Lutero, per fissare le origini della modernità, «sottintendendo che il principio d’immanenza del primo non avrebbe potuto capovolgere la visione del mondo in senso totalmente antropocentrico se non vi fosse stata prima la riduzione protestantica della verità della religione alla soggettività della sola fide. In verità il cogito e la sola fide sembrano costituire i due piloni di un’unica arcata sotto la quale ha fatto la sua apparizione l’uomo moderno con la sua pretesa di autonomia nei confronti di una presunta schiavitù filosofica e teologica. In ambedue infatti si afferma implicitamente la soggettività della verità, che è l’anima del pensiero moderno, e che ha portato fatalmente alla immanentizzazione e quindi alla negazione dei valori trascendenti. In campo filosofico il principio di Cartesio ha capovolto l’asse teoretico del pensiero umano, in quanto rinchiudendosi nella interiorità dell’Io penso ha voluto ricavare dal suo seno la conoscenza di tutta la realtà, uomo-Dio-mondo, a prescindere dalla priorità oggettiva della conoscenza dell’essere»[6]. L’esattezza di questa analisi di Passatore è confermata dallo stesso Feuerbach, quando scrive che: «il vero Dio, l’oggetto autentico delle fede luterana e della religione cristiana in genere, è unicamente Cristo, e Cristo in quanto vanifica ogni possibilità ulteriore di distinguere tra un in sé ed un per noi. Cristo non è in sé e per sé nulla che non sia anche per noi.

>>Il suo volere divino è il nostro essere, la sua nascita umana è la nostra nascita salvifica, la sua vittoria è la nostra vittoria. In breve, tutto ciò che è suo, è nostro. Che cos’è, infatti, la risurrezione di Cristo in se stessa? Nulla. Infatti, essa sta unicamente a significare la nostra risurrezione; essa è solo la prova certa e sensibile del nostro risorgere e essere immortali. Che cos’è l’Uomo-Dio in se stesso? Niente: l’uomo Cristo è Dio unicamente per potere essere un Dio per noi e uomo per poter mostrarsi umano nei nostri riguardi. Che cos’è dunque in assoluto Dio? Nulla, dal momento che Dio esiste solo per gli altri e sussiste solo in vista di ciò che non è Dio. Dove non si dà bisogno, non si sente neppure l’esigenza di Dio, e là dove non si sente il bisogno di Dio, Dio non esiste. Il “fondamento” dell’esistenza di Dio si ritrova al di fuori di lui, si ritrova nell’uomo: Dio presuppone l’uomo. Dio è “l’essere necessario”, ma egli è necessario non in sé o per sè, ma per gli altri: per coloro che lo sentono o lo ritengono indispensabile. Un Dio senza uomo è un Dio senza necessità, ma essere senza necessità significa essere senza motivo, significa essere cianfrusaglia, lusso, vacuità»[7]. A sua volta l’esattezza dell’analisi di Feurbach – valida solo per il luteranesimo – è confermata da Lutero stesso. È, infatti, per Lutero, in una sintesi tra irrazionalismo e fideismo che «la divinità non è senza creatura». È in lui che «la cristologia si riduce ad antropologia, mediata attraverso il filtro della soteriologia. Si può affermare infatti che la dottrina luterana della salvezza dell’uomo in Cristo esaurisce tutta la teologia, che diviene così teologia dell’uomo sic et simpliciter. È ciò era nella logica del sistema. Perché se di Dio in sé non si può affermare nulla, se ogni discorso su di lui appare insignificante, presentandosi solo come un elegante e dialettico virtuosismo verbale, era ovvio che il Cristo Redentore – l’Uomo celeste che redime l’uomo terreno – diventasse oggetto esclusivo dei suoi interessi e dei suoi sentimenti»[8]. Le antitesi di Feurbach – «se, pertanto, vuoi avere Dio, ripudia l’uomo; se invece vuoi avere l’uomo rinuncia a Dio, altrimenti non avrai nessuno dei due. La nullità dell’uomo è la premessa per fondare la realtà specifica di Dio. Affermare Dio significa negare l’uomo, onorare Dio è disprezzare l’uomo, lodare Dio equivale a diffamare l’uomo. La gloria di Dio si fonda unicamente sulla meschinità dell’uomo, così come la beatitudine divina riposa sulla miseria umana, la sapienza di Dio sulla stoltezza dell’uomo e la sua forza sulla nostra debolezza»[9] – non hanno senso alcuno, né possibilità che fossero pensate, senza Lutero, giacché queste antitesi erano state poste da quest’ultimo, e per di più non risolte: Lutero non ebbe mai pace circa la giustificazione. Ma d’altra parte, quale pace era possibile? Il riposo che invece trovò il cuore di Agostino è la misura dell’incomprensione da parte di Lutero del proprio maestro.

Data la totale equivocità tra anima e Dio, la fede stessa è impossibile. E la radice dell’equivocità risale non solo al problema gnoseologico che contrapponeva i realisti ai nominalisti, ma al problema antropologico del valore dell’azione umana. Già Duns Scoto poneva in risalto la volontà di Dio nel determinare tale valore, indipendentemente dalla bontà intrinseca dell’atto. Questa visione volontaristica si opponeva a quella intellettualistica, in nome della libertà di Dio di attribuire ad un’azione umana non il merito spettante oggettivamente secondo un rapporto razionale tra atto morale e ricompensa divina. Calvino addirittura arriverà a sostenere che nam Christus nonnisi ex Dei beneplacito quidquam mereri potuit. E questa visione volontaristica, prima di Lutero, fu adottata sia dalla via moderna di Occam e Beil, sia dalla schola augustiniana moderna di Bradwardine, Wyclif o Gregorio da Rimini. In realtà, come precisa McGrath, queste due scuole, nominaliste nell’ambito gnoseologico, avevano posizioni teologiche differenti. I teologi della via moderna – il cui elemento centrale era l’aspetto soteriologico del patto tra Dio e l’umanità, patto interpretato secondo logiche mercantili ed economiche – attribuivano importanza all’azione dell’uomo, chiamato a facere quod in se est, ma si difendevano dall’accusa di pelagianesimo – la giustificazione ottenuta dagli sforzi umani – attraverso l’analogia con la moneta di piombo (utilizzata al posto di quella d’oro in tempo di crisi a questa moneta veniva imposto un valore nominale molto maggiore rispetto a quello intrinseco: Dio tratta le opere umane come se fossero d’oro, pur essendo di piombo). La schola augustiniana, invece, condivideva l’idea che la salvezza è esclusiva opera di Dio. Se «per un autore come Gabriel Biel, la capacità di rinunciare al peccato e darsi alla rettitudine era l’esempio di una risorsa soteriologica vitale situata all’interno della natura umana», «in netta opposizione a queste tesi Gregorio da Rimini sosteneva che tali risorse si trovano soltanto al di fuori di essa. Anche la capacità di rinunciare al peccato e di aderire alla rettitudine nascevano dall’intervento di Dio e non dall’azione umana. Queste sono ovviamente due maniere del tutto diverse di concepire il ruolo di Dio e quello umano nella giustificazione»[10]. Lutero recepisce queste tensioni, fino a maturare la convinzione che per l’uomo qualsiasi opera sia inutile, perché nessuna in grado di soddisfare le richieste di Dio: «non aveva le risorse necessarie per esser salvato. Dio non poteva in alcun modo dargli la salvezza come equa ricompensa: ma solo la condanna. L’idea della “giustizia di Dio” divenne quindi per Lutero una minaccia. Non poteva significare altro che dannazione e castigo»[11]. Anche ammettendo la non malvagità della morale comune, la sua totale insufficienza apriva alla condanna senza appello. La chiave di volta – tradizionalmente nota come Turmerlebnis (l’esperienza che Lutero fece forse in una torre del convento degli agostiniani di Wittemberg) – fu, come si sa, la Lettera ai Romani e l’interpretazione dell’azione giustificatrice di Dio – il Quale adempie tutte le condizioni – e che «viene partecipata all’uomo esclusivamente nell’atto di fede. L’uomo può prendere parte alla giustizia di Dio soltanto attraverso un atto cosciente di fede che si dirige alla parola di Dio. La rinascita significa, prima di tutto, questa cosa»[12]. Apparentemente il fatto che Dio tutto concede e tutto libera nella sua assoluta libertà potrebbe sembrare una proficua sintesi di umiltà umana e benevolenza divina, così da poter scrivere che «la parola libertà diventò in assoluto il grido di battaglia dell’epoca moderna, e la Riforma ne assunse il pathos carico di attrattiva soprattutto perché quel motto sembrava liberare l’uomo di allora dalle condizioni medievali legate all’epoca e prometteva di dargli ciò che inutilmente da molto tempo ormai aveva chiesto con forza o aveva inconsapevolmente desiderato. La “libertà dell’uomo cristiano” fu non per caso la parola d’ordine della Riforma, una parola gravida di futuro, anche se spesso fraintesa»[13].

In realtà quella libertà scissa da ogni ragionevolezza proprio qui manifesta l’assurdo della sua equivocità, vantando molte analogie con la libertà nichilista contemporanea: ho scritto sopra che Nietzsche non fa altro che affidare all’oltre-uomo quella volontà che Lutero attribuiva a Dio. E questo non tanto per i due aspetti non agostiniani presenti nella dottrina luterana: per Agostino infatti giustizia umana e giustizia divina sono complementari e «Dio conferisce al peccatore la giustizia giustificante, in modo tale che essa diventa parte integrante della persona. Di conseguenza quella giustizia, pur avendo la sua origine fuori dal peccatore, diventa parte di lui o di lei. Per Lutero, invece, la giustizia di cui stiamo parlando rimane sempre esterna al peccatore: è una “giustizia altrui” (iustitia aliena). Dio considera o “conta” tale giustizia come se fosse propria alla persona del peccatore»[14]. Per Lutero l’uomo era, è e rimane peccatore sempre. È considerato giusto da Dio, non reso giusto come sostiene Agostino, che considera complementari e di fatto coincidenti la giustificazione e la santificazione (come ribadirà Trento). Ma il problema è più profondo. O almeno ciò contro cui si reagì violentemente è una più profonda equivocità, coerentemente con la quale Calvino ammetterà in chiave predestinazionista le due arbitrarie azioni divine di salvare alcuni e condannare altri. A mio avviso il problema è che quella minaccia della giustizia di Dio vissuta drammaticamente da Lutero, in pratica tutta la vita, non è affatto risolta dall’esegesi di Romani. Lutero potrà pur annotare che «si sentì rinascere, e gli parve che si spalancassero per lui le porte del paradiso», che «la Scrittura prese un significato nuovo», fino ad «amare e esaltare quel dolcissimo vocabolo»: giustizia di Dio; in realtà quello compiuto da Lutero è uno spostamento del problema al momento precedente. Paradossalmente Lutero è aristotelico quanto al regresso all’infinito: la giustizia esula dalle opere, e non perché Dio valuta oro ciò che in realtà è piombo – come volevano i teorici della via moderna – ma perché Dio pone possibilità, condizioni, azioni. Passivamente all’uomo spetta avere fede. Il punto non è tanto la certezza della salvezza o la compresenza calvinista di certezza teologica e sicurezza psicologica. Il punto è che la fede non è un’azione umana. È il primo Lutero ad aver presente Mt 7 sulla disposizione di Dio a soddisfare la ricerca umana. La posizione teologica matura è quella espressa da McGrath, quando spiega: «la dottrina della “giustificazione per fede” non significa dunque che la persona che ha peccato sia giustificata perché crede, cioè a motivo della sua fede – questo è ciò che Lutero, in fondo, credeva nel periodo precedente, come abbiamo visto. In tal caso, infatti, la fede sarebbe ancora un’azione o un’opera umana meritoria, una condizione per la giustificazione. La scoperta di Lutero consiste invece nel riconoscere che è Dio a fornire tutto ciò che è necessario per la giustificazione, di modo che ciò rimane da fare per il peccatore è semplicemente riceverla. Nella giustificazione Dio è attivo, gli esseri umani sono passivi. […]. Anche la fede è opera di Dio e non opera umana. Dio stesso adempie le condizioni per la giustificazione. Perciò, come abbiamo visto, la “giustizia di Dio” non è una giustizia che giudica se noi rispondiamo o no alle condizioni per essere giustificati, ma è la giustizia che ci è donata affinché possiamo rispondere a quelle condizioni»[15]. Ma è proprio questo il dramma angosciante: anche la fede è opera di Dio e non opera umana. Nessuna azione umana rilevante in ambito cristiano – neanche la ricerca da cui scaturisce l’apertura al mistero, la scelta ragionevole, volontaria e libera di credere – è opera attiva dell’uomo. Il volontarismo teologico è assoluto quanto il nichilismo umano, a maggior ragione che l’uomo rimane peccato e null’altro (tanto che Melantone utilizza il riferimento alla giustificazione forense che Dio imputa – e non impartisce – al peccatore in foro divino). È Lutero stesso nella tesi 25 a spiegare il dominio assoluto sull’uomo da parte del diavolo, per intero e senza eccezioni. «La vittoria sul peccato, la morte e il demonio non avviene substantialiter, ma relative. Benché queste potenze siano ancora all’opera, esse sono vinte extra nos in Cristo, nella sua vita divina. Nella fede noi partecipiamo già da adesso a questa salvezza escatologica, anche se la vittoria definitiva su queste potenza che ci alienano da Dio ha ancora da venire nella vita eterna»[16]. L’equivocità finisce quasi per rendere la natura peccaminosa umana più irresistibile della grazia, perché tale natura resterebbe al di sotto dell’abisso colmato dalla grazia. Anche la fede sarebbe quella di Dio nella sua grazia.

 

 

 

[1] A. Molinaro, a cura di, Interpretazione del nichilismo, Herder - Università Lateranense, Roma 1986, pp. 7-10.

 

[2] K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, trad. it. G. Colli, Einaudi, Torino 2000, p. 294.

 

[3] G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano 1974, pp. 283-284.

 

[4] M. Heidegger, Holzwege, trad. it. V. Cicero, Bompiani, Milano 2002, p. 279.

 

[5] G. Penzo, a cura di, Il nichilismo da Nietzsche e Sartre, Città Nuova, Roma 1976, pp. 24-25.

 

[6] G. Passatore, Il Cristo ateo in Feuerbach, Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo 1975, pp. 29-30.

 

[7] L. Feuerbach, Filosofia e Cristianesimo. L’essenza delle fede secondo Lutero, trad. it. A. Alessi, Las, Roma 1981, pp. 169-170.

 

[8] G. Passatore, Il Cristo ateo in Feuerbach, op. cit., p. 27.

 

[9] L. Feuerbach, Filosofia e Cristianesimo. L’essenza delle fede secondo Lutero, op. cit., p. 127.

 

[10] A.E. McGrath, Il pensiero della Riforma, trad. it. A. Comba, Claudiana, Torino 19952, p. 114.

 

[11] Ibidem, pp. 134-135.

 

[12] W.H. van De Pol, Il Cristianesimo della Riforma, trad. it. G. Regina , Edizioni Paoline, Milano 1958.

 

[13] E. Iserloh, Compendio di storia e teologia della Riforma, trad. it. G. Poletti, Morcelliana, Brescia 1990, p. 17.

 

[14] A.E. McGrath, Il pensiero della Riforma, op. cit., p. 152.

 

[15] Ibidem, p. 143.

 

[16] K-H. zur Mühlen, L’antropologia di Martin Lutero alla luce dell’escatologia, in G. Beschin - F. Cambi - L. Cristellon, a cura di, Lutero e i linguaggi dell’Occidente, Morcelliana, Brescia 2002, p. 135.

Ancora 1
Ancora 2
Ancora 3

 

Marx rifiuterà integralmente l’idea stessa di Dio. Non solo come oppio dei popoli. Molto di più. Il motivo è molto più sottile: ribaltando – ironia per Lutero – l’antica quaestio di Agostino se Dio da dove il male?, la domanda marxista è se Dio, da dove il bene? Per quanto possa apparire paradossale l’antitesi Dio-bene, la domanda marxista ha una sua coerenza all’interno del luteranesimo. L’esistenza di Dio sconfessando l’opera umana, ne impedisce qualsiasi morale. Da ciò segue che perché sia possibile una morale umana, è necessario distruggere la religione e Dio, fino alla sua stessa idea. Questo potrebbe derivare dal luteranesimo, nella sua matrice nichilista. Mi spiego. Il fatto che il marxismo sia una religione atea che si sostituisce a quella tradizionale è stato abbondantemente dimostrato: dovrebbe essere noto a tutti che il marxismo si presenta come dottrina conchiusa in se stessa, nell’ordine di una «metafisica immanentistica assoluta»[1], giacché tutto è metafisica e chi la nega non fa altro che sostituirla, non potendo distruggere la radice antropologica essenzialmente metafisica. All’interno di ciò è da collocare e capire la conquista del potere da parte del proletariato come una sorta di sacrificio storico-messianico, il «parto storico» dell’uomo nuovo, il superamento ideologico dell’umanesimo socialista dell’ottocento, sostituito, all’interno della dialettica materialista, dall’utopia messianica, politica e antropologica insieme, pensata come possibile, realizzabile, definitivamente redentiva[2]. E soprattutto all’interno di ciò è da collocare la matrice atea e ateistica, che al contrario di quanto si crede non è un postulato della rivoluzione liberalizzatrice, quanto piuttosto la condizione archetipa: «Considerato nel suo spirito e nei suoi principi il comunismo quale esiste – innanzitutto il comunismo delle repubbliche sovietiche – è un sistema completo di dottrina e di vita il quale pretende di svelare all’uomo il senso dell’esistenza, risponde a tutte le questioni fondamentali poste dalla vita e manifesta una potenza ineguagliata di inviluppamento totalitario. È una religione, e delle più imperiose e sicura di essere chiamata a sostituire tutte le altre religioni; una religione atea di cui il materialismo dialettico costituisce la dommatica, e il comunismo, come regime di vita, è l’espressione etica e sociale. Così l’ateismo non è richiesto (ciò che sarebbe incomprensibile) come una conseguenza necessaria del sistema sociale; ma è presupposto al contrario come il principio di questo»[3]. Ha riconosciuto Giulio Girardi che nella stessa misura in cui il protestantesimo aveva posto il problema di essere pro o contro il cattolicesimo, la Rivoluzione francese pro o contro il cristianesimo, il Marxismo pone il problema di essere pro o contro Dio. Il marxismo interpreta la religione nella sua effettiva funzione storica e vuole superare e portare a compimento l’emancipazione sociale avvenuta nella Rivoluzione francese attraverso l’emancipazione religiosa definitiva, ponendosi l’obiettivo esplicito della distruzione della religione – mai venuto meno con il neo-marxismo anche democratico[4]: si tenga ben presente che il comunismo di tradizione occidentale, che almeno dal 1968 – cioè dalla primavera di Praga – prese le distanze da Mosca, non è mai stato immune dalla intenzione distruttiva della religione. E non si citi la svolta di Salerno di Togliatti e la sua intenzione di riconoscere i Patti del Laterano. In senso aulico e filosofico quello che è stato al massimo riconosciuto alla religione è di essere ancilla rivolutionis e a Dio di essere «entelechia utopica»: a parte la nota interpretazione di Engels, si pensi a Bloch e al concetto di uomo utopico; si pensi ai cristiani senza Chiesa di Kolakowski in Polonia; si pensi alla distinzione di Gramsci tra utopia della massa subalterna del cristianesimo primitivo e il cristianesimo della Chiesa e dei Gesuiti; si pensi all’interpretazione di un ex prete portoghese – Fernando Belo – delle sette ebraiche presenti nel Vangelo (i farisei nazionalisti; i sadducei collaborazionisti; gli esseni comunisti ascetici; gli zeloti partigiani della resistenza armata); si pensi a quanti sedicenti cattolici hanno l’immagine di Gesù Cristo non come il Figlio di Dio ma un lontano parente anarchico-comunista di Che Guevara; si pensi infine ai «cristiani per il socialismo», i quali, avendo forse frainteso che In principio era il Logos, più che il dia-logos, a furia di modernizzare il cattolicesimo non solo hanno trasformato la Chiesa di Dio in sala del Popolo, l’Altare in mensa, la Messa in karaoke spiritualoide, ma la fede stessa in prassi rivoluzionaria e la salvezza di Dio in liberazione politico-sociale, negando la radice stessa del Cristianesimo: la Persona del Cristo, vero Uomo e vero Dio. Il marxismo, come il capitalismo, è una dottrina antropologica, prima che economica e sociale; e la sua antropologia è atea e demiurgica, sceglie l’uomo contro Dio, l’uomo che si crea attraverso il proprio lavoro, la propria attività. L’uomo non è un essere razionale, è un essere lavoratore e la sua essenza è sociale, comunitaria. Il marxismo afferma la libertà umana, la sua liberazione, la sua emancipazione contro ogni alienazione. E la radice di ogni alienazione, compresa quella religiosa – andando quindi oltre Feuerbach – è l’alienazione sociale: l’emancipazione politica ottenuta con la Rivoluzione francese (borghese) è solo il primo passo, ma non il definitivo. Solo con l’estinzione dello stato borghese – che è lo stato di quella scissione tra privato e pubblico perpetuata dalla religione e dall’interiorizzazione della coscienza –, si otterrà la vera emancipazione umana. Marx lo dice anche degli ebrei, ne La Questione ebraica (1843-1844): il problema non è emancipare la religione degli ebrei, ma gli ebrei (e i cristiani) dalla religione. L’avvento del marxismo è la distruzione della religione. Il marxismo vuole quello che voleva l’illuminismo tollerante di Voltaire: l’eliminazione non solo di Dio, ma anche dell’idea di Dio, del problema di Dio. L’uomo potrà tornare alla sua vera natura sociale solo distruggendo tutti i modi di appropriazione dell’uomo, quali stato, morale, famiglia, religione. E lo afferma non in teoria, ma in pratica: il marxismo ha nella prassi «il criterio di verità e di valore»[5], ed è prassi anti-religiosa. Il marxismo è una forma di pragmatismo non relativista, che si basa su una fiducia: «la realtà è costituita in modo da rendere realizzabile la libertà»[6]. La prassi è assolutamente storica: quello marxista, come diceva Gramsci, è un umanesimo storicistico assoluto. Misconoscere questo dato nel marxismo come nel neo-marxismo è un affronto alla verità e alla credibilità intellettuale. Qualsiasi dottrina che si rifà a Marx è imprescindibilmente anti-umana. Qualsiasi teologia della liberazione è una visione marxista della realtà che se possiede qualcosa di teologico, lo possiede in senso anti-cristiano. Il passaggio della distruzione della religione è un passaggio obbligato, per affermare il valore di una morale umana (che il volontarismo aveva negato), per superare l’immobilismo consolidato dalla religione (che per questo è oppio). Bisogna sradicare l’alienazione religiosa in quanto tale, la quale è anche e soprattutto sociale, perché l’uomo, il cui rapporto con Dio è individuale, non sia più distolto dall’impegno comunitario, perché sia possibile la scienza che si oppone al mistero ed è materialista. L’accusa alla religione è complessa, giacché viene accusata di consolidare l’immobilismo, funzionando da narcotico; di contrapporsi allo sviluppo scientifico; di distogliere l’uomo dall’impegno comunitario, per distrarlo nel suo rapporto individuale con Dio; di negare la possibilità di una morale autenticamente umana. Per un verso, debbo riconoscere l’interesse suscitatomi dall’analisi di Girardi volta a spiegare questo strano rapporto tra morale ed esistenza di Dio: «Al limite una teologia volontaristica è negatrice di ogni morale assoluta: è bene ciò che Dio vuole, è male ciò che Dio non vuole. Si comprende quindi come molti atei credano di dover rifiutare la religione per rimanere fedeli alla morale. […]. Nell’impostazione teistica il problema del male sorge quando, provata l’esistenza di Dio, si è condotti ad analizzare la sua azione nel mondo. […]. Questi, infatti, se esistesse, dovrebbe essere buono e non potrebbe permettere il male. Nel marxismo (come in alcune altre forme di umanesimo ateo) l’impostazione è rovesciata: se Dio esistesse, l’uomo sarebbe condannato al male, dovrebbe rinunciare a superarlo. Dio è negato non perché esiste il male, ma affinché il male non esista. Dio è negato non perché se esistesse dovrebbe essere buono, ma perché se esistesse dovrebbe essere cattivo. È negato non perché sia incompatibile con il male, ma perché è incompatibile con il bene»[7]. Ad essere sincero, mi stupisce però una certa superficialità con cui Girardi accomuna il religioso in generale e, anche rispetto al cristianesimo, non espliciti la dinamica da cui muove l’analisi marxista: è innegabile che l’analisi marxista della religione, come d’altra parte la filosofia tedesca settecentesca e ottocentesca in generale, proceda avendo alle spalle Occam e Lutero. Se si considera la teologia morale cattolica l’accusa marxista perde di ogni significato filosofico, là dove lo acquista rispetto all’antitesi protestante tra fede e ragione, al concetto di predestinazione, al concetto di anarchia della grazia e teologia della croce; là dove lo acquista nella sintesi tra storia sacra e storia profana strutturata da Calvino, a cui dobbiamo «il primo corano gnostico deliberatamente elaborato»[8]. Nel cattolicesimo l’umile coraggio della fede si apre alla ragionevolezza del Logos, che, in quanto Dio, possiede l’iniziativa primaria, ma rispetta l’uomo nella sua libera adesione a fare il bene nella sua interezza. La prospettiva teologica è lontana tanto dalla naturale santità dell’uomo – l’antropologia di Rousseau – tanto dalla naturale sua dannazione, poiché non sclerotizza né il Peccato, né la Natura, né l’eteronomia della Volontà di Dio. Il più grande insegnamento di San Tommaso, in questo senso, risiede ancora una volta nel concetto di analogia.

 

 

 

[1] J. Maritain, Umanesimo integrale, trad. it. G. Dore, Borla, Roma 2002, p. 105.

 

[2] Ibidem, p. 108.

 

[3] Ibidem, p. 90.

 

[4] Ho trovato importante il testo, da cui ho attinto per queste brevi note, di G. Morra, Marxismo e religione, Rusconi, Milano 1976.

 

[5] G. Girardi, Marxismo e Cristianesimo, Cittadella Editrice, Assisi 19737, p. 81.

 

[6] Ibidem, p. 27.

 

[7] G. Girardi, Marxismo e Cristianesimo, op. cit., pp. 41-61.

 

[8] E. Voegelin, La nuova scienza politica, trad. it. R. Pavetto, Borla 19992, Roma, p. 176.

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